Nell’immaginario comune il nome di Niccolò Macchiavelli è associato all’opera che più di tutte sancì una ridefinizione dei saggi critici di filosofia politica: il Principe. Gli anni che accompagneranno l’ex Segretario fiorentino alla stesura di questo trattato saranno molto tortuosi, difatti nel novembre 1512 venne rimosso dagli uffici di segretariato della Seconda Cancelleria fiorentina.
Il 1513 iniziò addirittura peggio di come finì l’anno precedente, in quanto venne scoperta una congiura antimedicea ordita da Pietropalo Boscoli e Agostino Capponi, che annotarono su una cedola i nomi di alcuni malcontenti dei Medici; Machiavelli era in questa lista, ed a seguito di questo evento venne imprigionato e torturato.
Lontano dalla vita pubblica e dalla scena politica, Machiavelli iniziò la stesura dell’opera che noi tutti, almeno superficialmente, conosciamo e di cui siamo al corrente. Ma parallelamente al Principe, Machiavelli scrisse un’opera assai più corposa in termini di contenuti, ove la trattazione degli argomenti può dirsi meno laconica: i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio (che da adesso in poi chiameremo solamente Discorsi), ed anch’esso iniziò a trovar forma intorno al 1513.
Ad una prima lettura, le differenze fra le due opere si direbbero nette, in quanto il Principe ha come oggetto di analisi i principati, mentre i Discorsi si concentrano sull’analisi teorica e pratica delle repubbliche.
Quindi Machiavelli come tanti altri filosofi politici avrebbe esposto la sua dottrina politica in due opere. Anche Platone, ad esempio, fece lo stesso con la Repubblica e le Leggi, ma specificando espressamente che le argomentazioni delle Leggi sono subordinate alle argomentazioni della Repubblica, ritenendo quindi la Repubblica più importante dal punto di vista contenutistico delle Leggi.
Machiavelli però non ritenne opportuno ordinare secondo un certo grado di importanza i due scritti, non gerarchizzò fra di loro le opere, e questo non deriva dall’assoluta diversità dei temi trattati che potrebbero portare alla futilità di compiere tale scelta.
Il rapporto fra il Principe ed i Discorsi è quindi oscuro: intendendo con questo termine la difficile comprensione degli intenti che Machiavelli stesso aveva al momento della composizione delle due opere, ed inoltre, il rapporto che fra le stesse si cela.
Il ritenere oscuro il rapporto tra le due opere potrebbe sembrare azzardato: qualcuno potrebbe ipotizzare che la diversità dei temi trattati e la diversità dei pubblici a cui erano rivolti i due scritti abbiano portato Machiavelli a non ritenere giustificabile lo stabilire un ordine di importanza fra il Principe e i Discorsi.
Per quanto riguarda i differenti pubblici, le diversità, quanto meno apparenti, sono certificate: il Principe venne dedicato al signore di Machiavelli, Lorenzo dei Medici, mentre i Discorsi vennero indirizzati ad alcuni conoscenti di Machiavelli; furono proprio questi ultimi a spingerlo a scrivere il saggio, difatti Machiavelli nella seconda opera non scrive di propria iniziativa.
Le diversità d’intenti invece non possono dirsi certificate: le riflessioni, gli scopi, la dottrina politica insita nei due trattati non si discostano al punto da non stabilire fra di loro parametri di gerarchizzazione.
All’inizio del Principe, Machiavelli divide le tipologie di Stati in due classi: repubbliche e principati. L’epistola dedicatoria, i titoli dei capitoli ed il titolo del trattato fanno evincere che questo libro è dedicato esclusivamente ai principati. In effetti, Machiavelli dirà espressamente che nel Principe intenderà trattare esclusivamente di essi e non vorrà argomentare dottrine sulle repubbliche, dato che lo ha fatto altrove.
Il riferimento che Machiavelli compie sull’aver discusso altrove tale tipologia di Stato rimanda ai Discorsi, ma questi ultimi trattano sia di repubbliche che di principati.
Anche all’interno del Principe, se letto attentamente, si può notare che Machiavelli adopera non pochi esempi d’analisi con rimandi a tipologie di Stato repubblicane: per citare un esempio, in quest’opera Machiavelli vuole sollecitare i principi a prendere come modello la repubblica romana, sia per quanto riguarda la politica estera sia per quanto concerne le materie militari.
Quindi sarebbe meglio dire che l’ex Segretario fiorentino nel Principe tratta tutti gli argomenti dal punto di vista del principe, mentre nei Discorsi espone la sua dottrina politica sia dal punto di vista del principato sia dal punto di vista della repubblica.
È quindi opportuno affermare che nei Discorsi Machiavelli presenti la sua intera cultura politica, a differenza del Principe, ove ne presenta solo una parte? Essendo inoltre i Discorsi molto più corposi in termini di valutazioni teoriche e politiche (i Discorsi in termini di lunghezza sono quattro volte il Principe), sarebbe corretto pensare che questi ultimi siano egemoni rispetto al Principe?
La risposta è no, perché non è ciò che Machiavelli dice; per capire questo occorre volgere lo sguardo alle epistole dedicatorie di entrambi i trattati. In quella del Principe Machiavelli dirà che l’opera conterrà tutto quanto egli ha trovato ed appreso da altri, ovvero, tutto quanto egli conosce. Nella epistola dedicatoria dei Discorsi, dirà che tutto ciò che egli sa e tutto quanto egli ha appreso dalle cose del mondo è all’interno di questo trattato.
Secondo quanto egli stesso ha espresso, in entrambe le opere risiede l’analisi teorica e politica di Machiavelli, in tutta la sua interezza.
Una diversità di temi è quindi esclusa; di fatto, ciò che emerge è la non differenza degli argomenti trattati, ed è proprio per questo che la relazione fra le due opere rimane oscura.
Le differenze, probabilmente, non risiedono negli argomenti, ma nella reticenza. Per seguire questa linea di analisi occorre ricollegarci a quanto detto prima sui destinatari delle due opere: il Principe è indirizzato al padrone di Machiavelli, i Discorsi sono rivolti a due suoi conoscenti. Riprendendo sempre le argomentazioni dette sopra, è bene tenere a mente che l’iniziativa di scrivere il Principe è tutta di Machiavelli, i Discorsi no, non sono scritti di sua iniziativa.
Ciò che sorregge la struttura del primo è il concetto di dono, il suo fine è dare consigli a problemi urgenti, per poi muovere all’azione (difatti il Principe si conclude con una poesia patriottica in italiano, che culmina in un appello appassionato all’azione).
L’architettura del secondo è assecondare una richiesta. Machiavelli sa che i Discorsi saranno ben accolti da coloro cui sono rivolti, stessa cosa non può dirsi del Principe; egli stesso è incerto sul dono da fare al suo padrone, ritenendo che forse sarebbe stato più avvenente per Lorenzo ricevere un prestante cavallo.
Proseguendo sulla strada della reticenza, uno spiraglio di analisi ce lo offre Machiavelli stesso, al capitolo LVIII dei Discorsi: “Dei popoli ciascuno dice male senza paura e liberamente ancora mentre regnano; dei principi si parla sempre con mille paure e mille rispetti”.
In questo passo s’intuisce bene ciò che Machiavelli ritiene saggio compiere nel momento in cui parole e/o scritti sono rivolti ad un principe: la cautela deve essere un tratto distintivo nel momento in cui si dedica riflessioni su un reggitore. Infatti, la cautela è un tratto distintivo riscontrabile anche nel Principe al capitolo XVIII, dove Machiavelli fa delle riflessioni sul come secondo lui i principi devono rispettare i patti: “Alcuno principe de’ presenti tempi, il quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto la reputazione e lo stato”.
La riservatezza dedita a non fare nomi di regnanti del suo tempo, Machiavelli la attua solamente quando si riferisce a questi ultimi criticandoli, in tutte le altre circostanze invece li menziona.
È probabile quindi che Machiavelli sia riservato nel Principe e schietto nei Discorsi.
Occorre però fare nuovamente chiarezza: Machiavelli nel Principe si rivolge al suo padrone con mille timori e mille rispetti; di conseguenza anche i Discorsi hanno al suo interno reticenza e riserve, perché se è vero che il Principe è direttamente rivolto ad un reggitore, non bisogna dimenticare che i Discorsi sono stati scritti da un suddito.
Giunti a questo punto, la domanda sorge spontanea: gli intenti di sovversione di modi ed ordini vigenti al tempo di Machiavelli con nuovi modi ed ordini tramite la sua dottrina politica, sono riscontrabili nel Principe o nei Discorsi? Inoltre, come dobbiamo leggere le due opere?
Rispondere alla seconda domanda porta al rispondere anche alla prima: le due opere vanno lette secondo le regole di lettura che Machiavelli considerava imperative, ma lui non ha mai stabilito regole di lettura, dobbiamo quindi volgere la nostra attenzione al come Machiavelli leggeva gli autori che elevava a fondamento.
L’autore che più di tutti è essenziale per Machiavelli è Livio (i Discorsi si basano difatti sui primi dieci libri della storia romana secondo Livio), di conseguenza dobbiamo conoscere il modo in cui Machiavelli interpretava gli scritti di Livio; per fare ciò occorre andare più o meno alla metà dei Discorsi, ove l’ex Segretario fiorentino tenta di dimostrare che il denaro non è fondamentale per condurre una guerra, dipoi concludendo la sua digressione citando Livio stesso: “Ma Tito Livio è di questa opinione più vero testimone che alcun altro, dove discorrendo se Alessandro Magno fosse venuto in Italia, s’egli avessi vinto i Romani, mostra essere tre cose necessarie alla guerra, assai soldati e buoni capitani prudenti, e buona fortuna, dove e esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessero in queste cose, fa dipoi la sua conclusione senza ricordare mai i danari.”
Livio volontariamente non menziona il denaro in un contesto in cui sarebbe stato oggettivamente plausibile farlo. Il silenzio di Livio è più canzonatorio di una dichiarazione vera e propria: la verità in questo caso è espressa tramite il silenzio.
Machiavelli attua la regola che il suo sommo autore favorisce in questo modo: se uomini saggi tacciono su un tema che l’opinione comune ritiene importante, tali uomini fanno capire in realtà che l’argomento in questione non è importante.
Machiavelli sia nel Principe che nei Discorsi applica la suddetta regola non distinguendo fra la terra e l’aldilà, spesso menziona Dio e/o gli Dei ma non parla mai del diavolo, non menziona mai l’inferno ma parla del paradiso, discute del cielo ma non menziona mai l’anima.
Ricordando ciò che lui stesso scrisse nelle epistole dedicatorie, in cui apertamente afferma che entrambi gli scritti conterranno tutto ciò che egli conosce, suggerisce attraverso il suo silenzio che i temi non menzionati sono irrilevanti, oppure che l’opinione comune circa questi elementi è semplicemente falsa. Prestare attenzione passiva ed al contempo silenzio su argomenti che l’opinione comune ritiene importanti, mostra che egli considera questi temi, come assai importanti in realtà: Machiavelli si discosta dall’opinione comune utilizzando il silenzio.
Secondo quanto è stato detto, è forse corretto ipotizzare che Machiavelli in nessuna delle due opere è attivamente sincero circa la sua dottrina politica?
Per tentare una risposta a questa domanda occorre un’analisi di più ampio respiro: in ogni tempo le società sono state fondate sulle leggi. Gli organi esecutivi delle leggi sono i governi; costoro hanno sempre limitato la libertà degli scrittori e chi tentava di “rompere le catene per uscire dalla caverna” era destinato al martirio.
La limitazione della libertà di scrittura nei confronti di nuovi modi ed ordini, nuove politiche e dottrine, richiedeva che gli scrittori stessi presentassero le loro riflessioni in modo indiretto, soprattutto se come Machiavelli si facevano critiche sui modi ed ordini correnti del suo tempo. Il pericolo che deriverebbe dal predisporre modi ed ordini nuovi è causato dall’invidia degli uomini, che consciamente disprezzano ma che inconsciamente ammirano i rivoluzionari.
Quasi alla fine dei Discorsi, Machiavelli dirà che egli non discuterà su quanto sia pericoloso farsi promotore di novità che sono di pubblico interesse, perché discutere di questi pericoli significherebbe accrescerli.
Nel Principe, Machiavelli dirà che gli oppositori di nuovi modi ed ordini hanno dalla propria parte le leggi, estremi difensori dei modi ed ordini vigenti. La situazione di Machiavelli potrebbe sembrare quindi fallimentare fin dal principio, dato che egli non ha dalla propria parte le leggi; ma c’è considerare che in ogni era conosciuta è sempre esistita discordia circa l’interpretazione delle leggi in vigore, e questo accadrà in qualsiasi epoca ed in qualsiasi tipologia di Stato. Ed è proprio sulla disarmonia d’interpretazione che gioca Machiavelli, esprimendosi con la massima franchezza solo sugli argomenti che possono essere ammissibili e plausibili ad una parte, praticando dipoi estrema cautela per i temi che non avrebbero appoggio da chiunque.
Inoltre ed infine, Machiavelli nasconde i motivi per cui appoggia in parte un’ala politica anziché un’altra. L’ex Segretario condurrà questa strategia in modo tale che i suoi lettori dovranno infine compiere un ultimo passo: “Machiavelli non giunge fino al termine della via; l’ultima parte della via deve essere percorsa dal lettore, che intende ciò che lo scrittore ha omesso. Machiavelli non va fino alla fine; egli non rivela la fine; egli non rivela interamente la sua intenzione” (L. Strauss, 1970).
Ma egli aiuta indirettamente a farci capire i suoi intenti, che vanno ben oltre la sua era. La sua dottrina politica non riguarda solamente i reggitori del suo tempo o soggetti privati della sua epoca, le sue concezioni guardavano oltre, volutamente.
L’analisi degli intenti di Machiavelli sarà oggetto di un mio successivo lavoro.
Bibliografia:
L. Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano, 1970.
N. Machiavelli, Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, Milano, Bur Rizzoli, da Mondadori Libri, 2018.
N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Bur Rizzoli, da Mondadori Libri, 2008.