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È tempo che l’America riformi sé stessa

Il sistema elettorale usa - di cui il Campidoglio è uno dei simboli più famosi - necessita di una riforma


Queste Elezioni Presidenziali degli Stati Uniti – al netto delle loro dinamiche e tempistiche uniche, ma ampiamente previste da tempo – hanno mostrato al mondo un Paese spaccato, diviso più che mai al suo interno da ferite che potrebbero metterci anni a ricucirsi.

Ancor di più, queste elezioni hanno messo in mostra come il sistema elettorale americano abbia al suo interno delle falle, delle imperfezioni che potrebbero essere riformate e rimesse al passo con i tempi. Se si considera la natura federale degli Stati Uniti, oltre che la loro grande eterogeneità interna, il sistema è nelle sue linee guida e principi fondativi un ottimo compromesso per il bilanciamento dei poteri. Tuttavia, resta un sistema pensato tre secoli fa per tredici ex colonie sulla costa atlantica in una società dominata dai Wasp. Una situazione estremamente diversa rispetto agli Stati Uniti del 2020, in cui le minoranze etniche sono sempre meno minoranze e la popolazione si concentra in massa nei grandi centri urbani.

Le strade possibili per riformare il sistema elettorale americano sono diverse, vediamone alcune più nel dettaglio.

Riformare il Senato

Mentre le delegazioni dei singoli Stati al Congresso sono proporzionali alla popolazione dello Stato, ogni Stato al Senato esprime due senatori ciascuno a prescindere dalla popolazione. Un principio nato originariamente con buone intenzioni tenere insieme l’Unione e impedire che gli Stati più popolosi potessero tiranneggiare contro quelli più piccoli – si sta rivelando ora una trappola che inceppa il sistema.

Secondo le ultime stime, una fetta sempre maggiore degli americani si sta spostando a vivere nelle grandi metropoli come New York, Los Angeles, Chicago, San Francisco. Se il trend continuasse a questi ritmi, in meno di una generazione il 70% degli americani andrebbe a vivere nei grandi centri urbani. A livello istituzionale, questo vuol dire che il 70% della popolazione andrebbe a eleggere il 30% dei senatori; viceversa il 30% della popolazione esprimerebbe il 70% del Senato. A prescindere dall’appartenenza politica di tale voto, una distorsione così grande è chiaramente troppo sbilanciata a favore degli Stati meno popolosi.

Una delle cose da ricordare sugli Usa è che sono per gran parte spazio vuoto. Questo crea storture anche nell’interpretazione delle mappe elettorali

Una possibile soluzione sarebbe mettere in piedi una riforma del Senato che preveda un correttivo proporzionale, così da rendere questa camera più simile alla composizione del Congresso. Ciò renderebbe la provenienza dei senatori più equa bilanciando l’esigenza di parità tra i vari Stati membri dell’Unione e la distribuzione di popolazione. Uno dei nodi da risolvere sarà convincere questi Stati ad accettare un ridimensionamento di quello che è il loro unico potere federale. Sono Stati in cui la popolazione non vede con favore il governo di Washington, che considera troppo invadente nella gestione del loro territorio. Una riforma di questa portata potrebbe creare una crisi nella tenuta dell’Unione.

Un’altra opzione sarebbe abolire totalmente il Senato ma – oltre a essere una modifica estrema a un sistema che regge da tre secoli – andrebbe a far pendere la bilancia verso quella manciata di Stati dove si concentra la popolazione, togliendo potere alla stragrande maggioranza degli Stati, creando davvero una frattura che potrebbe spezzare l’Unione.

Ciononostante, la riforma del Senato resta un discorso che i Presidenti e i Congressmen del futuro dovranno in qualche modo affrontare per rendere più equa la democrazia americana.

Rendere l’elezione dei Grandi Elettori Proporzionale

L’elezione di Donald Trump di quattro anni fa aveva già sollevato la questione, e quest’anno il fatto che molti Stati siano stati decisi al fotofinish ha mostrato come non sia più sostenibile che un candidato prenda tutti i Grandi Elettori di uno Stato anche solo per un voto in più. Una distribuzione proporzionale dei Grandi Elettori renderebbe le elezioni del Presidente più rispettose del voto popolare: quattro anni fa Trump prese tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton, ma fu lui il vincitore perché i suoi voti erano meglio ripartiti nei vari Stati.

Inoltre, il metodo proporzionale costringerebbe i candidati a lottare in ogni Stato, anche quelli storicamente Rossi o Blu, pur di ottenere una percentuale (anche perdente sul singolo Stato) che si traduca in qualche Grande Elettore in più per sé e in qualcheduno in meno per il proprio avversario. Infine, questo aumenterebbe anche l’importanza degli Stati più piccoli, che sebbene diano pochi Grandi Elettori diventerebbero maggiormente influenti se potessero spartire i propri delegati in maniera proporzionale.

Una mappa elettorale che mostra in modo chiaro i Grandi Elettori per ogni singolo Stato. Per essere eletto Presidente un candidato deve ottenere 270 Grandi Elettori

A onor di cronaca, ci sono già due Stati che eleggono i rispettivi Grandi Elettori in modo parzialmente proporzionale: Maine (4 Grandi Elettori, di cui 2 in modo proporzionale) e Nebraska (5 Grandi Elettori, di cui 3 in modo proporzionale). Le ragioni per cui questi due Stati ripartiscono i propri grandi elettori sono spiegate qui; ma rappresentano un precedente che potrebbe aiutare nel segnare una svolta storica per le istituzioni statunitensi, ma non rivoluzionaria e radicale. Infatti, anche con la distribuzione proporzionale dei Grandi Elettori, questo modello non sarebbe un proporzionale puro proprio a causa del correttivo dei voti per Stato. Per esempio, come si può leggere in questo articolo di Electoral Map, Trump nel 2016 avrebbe vinto comunque anche con questo sistema proporzionale, ma con un margine molto inferiore e quindi più vicino alla volontà popolare generale.    

Potenziare l’accesso al voto

La riforma più necessaria di tutte è però quella dell’accesso al voto, mai come quest’anno così determinante e incisivo, sia per la pandemia che per le proteste sollevate dal movimento Black Lives Matter. Queste elezioni sono state le elezioni con la maggiore affluenza della storia americana (168 milioni di voti), dato su cui hanno inciso sia il massiccio utilizzo del voto per posta – su cui si sono concentrate le false accuse di Trump e dei suoi sostenitori – sia della volontà di ambo le parti di far vincere il proprio candidato. Sia Trump che Biden hanno puntato tantissimo sulla mobilitazione dei propri bacini elettorali: Biden è risultato il candidato presidente più votato nella storia con quasi 80 milioni di voti; ma Trump non è andato molto peggio, fermandosi a poco più di 70. Due risultati sicuramente storici, ma che restano lontani da quanto siamo abituati in Europa.

Una prima riforma, la più semplice da attuare, sarebbe spostare l’Election Day durante il weekend come si fa in Europa. Questo permetterebbe alla maggior parte dei lavoratori di poter andare a votare anche se vi fossero lunghe file ai seggi. Questa pratica del voto infrasettimanale fu adottata proprio per impedire ai lavoratori più umili di votare, perché non possono permettersi di prendere un permesso dal proprio lavoro per fare ore e ore di coda. E sappiamo come in America lavoratore umile significa minoranza etnica, latino o afroamericana.

La seconda riforma, più complessa ma ugualmente necessaria, è l’aumento dei seggi in tutti i quartieri americani, specialmente quelli a maggioranza nera, affinché nessuno debba più fare ore e ore di code per votare. Una pratica nata per scoraggiare il voto delle minoranze, che ha trovato nuova linfa dopo la decisione della Corte Suprema del 2013 che ha dichiarato incostituzionale alcuni controlli federali sulle elezioni negli Stati del Sud introdotte con il Voting Rights Act del 1965. Ma in un Paese sempre meno bianco vuol dire alienare dalla partecipazione democratica una percentuale di popolazione sempre più ampia. E come si è visto durante l’estate, queste persone non sono più disposte a subire passivamente.

Infine, è tempo che venga abolita la pratica della registrazione attiva alle liste elettorali. Mentre in Europa tutti vengono iscritti automaticamente alle liste elettorali al compimento della maggiore età; negli Stati Uniti sono i singoli cittadini che devono iscriversi attivamente alle liste entro una certa data, pena la perdita del proprio diritto di voto per quella elezione. Una pratica che negli anni ha generato meccanismi di distorsione, specialmente nel Sud degli Stati Uniti dove agli elettori afroamericani fu di fatto vietata l’iscrizione con metodi ai limiti della legalità. Una pratica quella del voter suppression che rimane ancora oggi, specialmente negli Stati governati da Repubblicani, come la Georgia appena vinta – proprio grazie all’affluenza di elettori afroamericani – da Joe Biden. Il voto dovrebbe essere un diritto esercitabile da tutti, senza registrazioni o restrizioni.

Se gli Stati Uniti vogliono ancora considerarsi la democrazia più avanzata al mondo (e se il mondo vuole considerarli ancora il simbolo della libertà occidentale), è necessario che si affrontino i problemi istituzionali e di rappresentanza che per decenni sono stati nascosti sotto il tappeto. Un sistema che discrimina sistematicamente parte degli elettori e rende impossibile l’esercizio del diritto fondante del voto non è più accettabile e sostenibile.

L’elezione di Biden e Kamala Harris può far tirare un sospiro di sollievo collettivo, ma non va confusa come una vittoria sicura dello stato di diritto. La strada per riformare l’America è ancora lunga, ma non più rimandabile.