Laureato in Relazioni Internazionali presso Alma Mater Studiorum di Bologna, Studente di Strategie di Comunicazione Politica presso Università di Firenze, fondatore del Prosperous Network. Nel tempo libero abuso di Spotify.


Cosa è “Di Draghi e Leoni”?

Di Draghi e Leoni” è una rubrica di articoli dedicata all’indagine della cooperazione economica (e non solo) tra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati del continente africano; basata su una pubblicazione accademica per l’Università di Bologna dal titolo “Cina in Africa: Da Bandung alla Nuova Via della Seta” e successive riflessioni dell’autore.

In questa (spero) longeva serie di articoli indagheremo la dimensione storica della relazione in oggetto, dall’anno della fondazione della RPC e i primi contatti diplomatici con i neo-nati Stati africani a forme di cooperazione attualmente in via di sviluppo, come i FOCAC e la Nuova Via della Seta. Verrà presa in considerazione in un secondo momento anche la dimensione narrativa di questa relazione, indagando le strategie di soft power usate da Pechino per instaurare, come vedremo, alcuni solidi rapporti bilaterali. La rubrica si avvierà a conclusione cercando di delineare una valutazione complessiva del ruolo cinese e della relazione, tutt’ora in divenire, tra le parti interessate da questa riflessione.

Capitolo Primo: Come nasce un’amicizia?

La prima occasione di incontro tra la Repubblica Popolare di Cina, nata nel 1949 dopo una sanguinosa guerra civile, e gli Stati africani, che hanno recentemente ottenuto l’indipendenza dai propri colonizzatori, è rappresentata dalla Conferenza di Bandung del 1955, il primo “simposio Afro-Asiatico”. La relazione che si instaura in un primo momento è infatti fondata unicamente sulla condivisione del rifiuto delle logiche di oppressione esterne a discapito della sovranità nazionale degli Stati: seppur in forme diverse infatti, negli ultimi decenni sia i popoli africani che quello cinese hanno vissuto sulla propria pelle il dominio e l’influenza straniera.

Promossa dal Presidente Indonesiano Kusno Sosrodihardjo e coordinata dal suo Ministro degli Esteri Ruslan Abdulgani, la Conferenza di Bandung, svoltasi sull’isola di Java, vede la partecipazione di 23 Stati asiatici, tra cui la Cina rappresentata dal Primo Ministro Zhou Enlai, e 6 Stati africani, ovvero Egitto, Etiopia, Ghana, Liberia, Libia e Sudan.

Basato sulla consapevolezza della stretta “interdipendenza di uomini e nazioni” per il benessere e la sopravvivenza dello stesso pianeta Terra, si afferma la determinata contrapposizione di un nuovo gruppo di Stati, successivamente appellati come “Movimento degli Stati Non-allineati”, alle logiche di colonialismo e neocolonialismo propugnate non solo dalle potenze europee in Africa, Asia e America Latina, ma anche da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica.

La risoluzione conclusiva della Conferenza determina infatti alcuni principi di cooperazione economica e culturale, nonché di autodeterminazione dei popoli in relazione al rispetto dei diritti umani ed infine afferma la promozione di principi di cooperazione per il raggiungimento della pace globale, secondo dieci punti cardine[1]:

  1. Rispetto per i diritti umani fondamentali e gli scopi e principi della Carta delle Nazioni Unite.  
  2. Rispetto della sovranità e integrità nazionale di ogni nazione.
  3. Riconoscimento dell’eguaglianza di tutte le razze e dell’uguaglianza di ogni nazione, piccola o grande.
  4. Astensione dall’intervento o dall’interferenza negli affari interni di un altro paese. 
  5. Rispetto per il diritto di ogni nazione di difendere se stessa singolarmente o collettivamente, in conformità con la Carta delle Nazioni Unite.
  6. (a) Astensione dall’uso di forme di difesa collettiva per difendere l’interesse particolare di una qualsiasi delle grandi potenze.
    (b) Astensione da parte di ogni paese nell’esercitare pressioni su altri paesi.
  7. Rinunciare all’uso di atti, minacce d’aggressione e all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi paese.
  8. Risoluzione di ogni disputa internazionale attraverso mezzi pacifici, come la negoziazione, conciliazione, arbitrato o accordo giudiziario, o altre forme pacifiche in conformità con la Carta delle Nazioni Unite.
  9. Promozione di interessi reciproci e alla cooperazione.
  10. Rispetto per la giustizia e gli obblighi internazionali.

Questi dieci punti integrano insieme i principi della Carta delle Nazioni Unite (l’accordo costitutivo delle Nazioni Unite del 1945) con i “Cinque Principi di Coesistenza Pacifica” (negoziati tra Cina ed India tra dicembre 1953 ed aprile 1954 in merito alle relazioni tra i due Paesi rispetto ai territori contesi di Aksai Chin e ciò che la Cina chiama “Sud del Tibet” mentre l’India “Arunachal Pradesh”) [2][3]:

  1. Rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale nazionale.
  2. Non-aggressione reciproca.
  3. Non interferenza negli affari interni altrui.
  4. Equità e beneficio reciproco.
  5. Coesistenza pacifica.

Questi cinque principi, che animano il cosiddetto “Spirito di Bandung”, sono stati celebrati sessant’anni dopo come alla base del globo multipolare del XXI secolo, a dimostrazione dello sviluppo sostenibile del Sud del mondo[4]. Alberto Belladonna, professore associato di geo-economia e commercio internazionale presso la Universidad Francisco Marroquin, inquadra tali principi come base fondativa dell’attuale logica di cooperazione allo sviluppo tra la Cina e gli Stati africani, soprattutto per quanto riguarda il primo e il terzo (rispetto sovranità interna e non ingerenza negli affari interni)[5]. Questo, ovviamente, almeno sulla carta (ndr).

Conferenza di Bandung, Aprile 1955, Isola di Java.

Il primo Paese verso cui Pechino orienta la propria attenzione al fine di allacciare i primi rapporti diplomatici con il Continente è l’Egitto.

Zhou Enlai invita in occasione della Conferenza il leader egiziano Gamal Abdel Nasser a visitare la capitale cinese. Ne seguì la firma di un trattato commerciale tra i due Paesi che pose le basi per una relazione ufficiale a livello bilaterale. Dopo l’Egitto, anche Marocco, Algeria e Sudan tra il 1958 e il 1959 iniziarono a stabilire relazioni diplomatiche ufficiali con la Cina.

I primi progetti di aiuto allo sviluppo portati avanti dalla Cina in Africa invece avvengono tra il 1960 e il 1969 e riguardano la Guinea Conakry: grazie al prestito senza interessi di 100 milioni di renmibi vengono costruiti nel paese africano “una fabbrica di olio di palma e noccioline, una ditta di pressatura del bamboo, una fabbrica di fiammiferi e sigarette” e vengono “allestite risaie e campi per la coltivazione del té“. Vengono inoltre realizzati grandi opere pubbliche richieste dai guineiani quali il Cinema Libertà” e il Palazzo del Popolo, una struttura istituzionale da oltre duemila posti a sedere.[6]

In questo periodo infatti la Cina finanzia la costruzione in Africa di molteplici strutture importanti sotto un punto di vista simbolico per i neonati Stati, come stadi da gioco in Sierra Leone e Repubblica Centro Africana, palazzi presidenziali in Congo e Zimbabwe, uffici per i Ministeri degli Esteri in Angola e Mozambico e uffici per il Parlamento in Uganda, e molto molto altro ancora. [7]

Li Anshan, Direttore dell’Istituto per gli Studi Afro-Asiatici e del Centro per gli Studi Africani della Scuola di Studi Internazionali di Pechino, afferma che tali progetti sono più di semplici costruzioni di mattoni e calce: sono simboli nazionali d’indipendenza pervasi dallo spirito della decolonizzazione culturale e hanno giocato un ruolo fondamentale sia nella creazione di un’identità africana che nella formazione nel lungo periodo di un’opinione positiva nei confronti del popolo cinese.[8]

Mali, Ghana, Tanzania e Sierra Leone, dopo il caso-esperimento della Guinea Conakry, tutti governati da leader socialisti, ricevono proposte d’impegno allo sviluppo economico da parte del Governo Comunista Cinese.

Secondo Deborah Brautigam, professoressa di Economia Politica Internazionale e direttrice del Centro Studi Africani presso la Scuola di Studi Internazionali Avanzati Johns Hopkins, i primi Stati destinatari dell’aiuto cinese allo sviluppo in questa fase riflettono un preciso interesse ideologico del Partito Comunista Cinese, con due obiettivi principali.[9]

  1. La necessità di controbilanciare diplomaticamente Mosca e Washington in un mondo bipolare a fronte delle rotture ideologiche tra URSS e PRC agli inizi del 1960.
  2. La necessità di convincere i neonati governi africani a riconoscere Pechino e non Taipei come unica Cina secondo il principio dell‘One China Policy.

In merito al primo punto, il continente africano diviene in questi anni terreno di competizione ideologica e la Cina inizia a porsi come “guida del Terzo mondo” puntando a diffondere il proprio modello rivoluzionario anche attraverso il sostegno diretto ed indiretto di movimenti di liberazione come in Angola e in Congo.

In merito al secondo punto, la One China Policy è un principio formulato dal Governo cinese che afferma l’esistenza di una sola Cina, identificata con la Repubblica Popolare Cinese con capitale a Pechino. Il corollario principale di tale dottrina è che qualsiasi paese intenzionato ad essere un interlocutore economico della PRC deve necessariamente sospendere i rapporti diplomatici con ROC, ovvero la Repubblica di Cina, con capitale Taipei.

Il tema del riconoscimento di un’unica Cina legittimata a sedere nei consessi internazionali, come l’Organizzazione per le Nazioni Unite, è stato centrale durante gli anni Sessanta e giunge al culmine con l’approvazione della risoluzione 2758 delle Nazioni Unite nel 1971:

“L’Assemblea Generale […] riconoscendo che i rappresentanti del Governo della Repubblica Popolare di Cina sono gli unici legittimi rappresentanti della Cina alle Nazioni Unite e che la Repubblica Popolare di Cina è uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, decide di ristabilire tutti i diritti della Repubblica Popolare di Cina, di riconoscere i rappresentanti del suo Governo come unici legittimi rappresentanti alle Nazioni Unite e di espellere i rappresentanti di Chiang Kai-shek dal seggio che occupano illegittimamente all’Organizzazione delle Nazioni Unite e presso tutte le organizzazioni internazionali ad essa collegate.” [10]

Un successo che, come afferma Mao Zedong, “è stato reso possibile soprattutto grazie all’aiuto degli amici neri africani”.

Chris Alden, professore di Relazioni Internazionali presso la London School of Economics, all’interno del suo libro “China in Africa” infatti la definisce come una “competizione diplomatica svoltasi nel continente africano e manifestatasi sottoforma di controfferte di aiuto economico, investimenti per lo sviluppo, assistenza militare e accesso al mercato interno.[11] […] Una componente principale dell’espansione della presenza cinese in Africa infatti è stato l’uso di aiuto allo sviluppo per cementare legami con governi sia come mezzo per assicurarsi accesso privilegiato alle risorse che per guadagnare nuovi alleati diplomatici.” [12]

Quest’ultima affermazione è fondamentale per comprendere la natura delle relazioni tra la Cina e l’Africa fino agli anni Ottanta, del quale parleremo nella prossima puntata di “Di Draghi e Leoni“.

La prima seduta delle Nazioni Unite della PRC dopo l’estromissione della ROC, 1971.

Puoi consultare le fonti utilizzate per questo elaborato consultando questo link.