Per un errore di programmazione, nel 2005, un virus scatenò il panico all’interno di World of Warcraft, creando un caso di studi senza precedenti. “Dopo la tempesta c’è stata la rabbia, ecco cosa è successo 15 anni fa”
Poche settimane fa avevamo rilanciato una notizia del lontano 2005, riguardo quello che è passato alla storia come, “l’incidente del Corrupted Blood”: un’epidemia scoppiata all’interno di un videogioco, World of Warcraft (WOW), che oggi mostra tutte le sue somiglianze con la pandemia COVID-19.
“L’incidente del Corrupted Blood” divenne un caso di studi per gli epidemiologi di tutto il mondo, fra i quali Nina Fefferman che, al telefono da Knoxville, dove insegna epidemiologia all’Università del Tennessee, ha raccontato in un’intervista alla Repubblica il virus e le sue conseguenze.
Per la studiosa, la Pandemia del Covid-19 è, in parte, un film già visto.
“Ovviamente un videogame e il mondo reale sono cose diverse, ma certe reazioni e dinamiche sono le stesse”, spiega la ricercatrice americana, autrice, assieme al collega Eric T. Lofgren dello studio: The untapped potential of virtual game worlds to shed light (Per far luce grazie al potenziale non sfruttato dei mondi di gioco virtuali).
Come sappiamo, venne rilasciato un aggiornamento che introduceva nuove missioni alla fine delle quali era necessario sconfiggere un drago, Hakkar the Soulflayer, il quale se minacciato rispondeva con una maledizione: il Corrupted Blood. Questo incantesimo infettava i giocatori, causava ingenti danni e, proprio come un virus, si propagava a tutti coloro i quali avevano la sfortuna di trovarsi vicino ad un infetto. La maledizione, tuttavia, era pensata per esistere solo durante lo scontro con il drago e non al di fuori di esso ma, come in ogni storia apocalittica che si rispetti, accadde che l’infezione fuoriuscì e cominciò ad infettare il mondo di gioco esterno. Non si sa chi fu il Paziente 0, ma dal 13-09-2005, in tutte le capitali di gioco, iniziarono a comparire i primi infetti che in poche ore resero incontenibile l’epidemia. I giocatori vedevano i propri avatar morire continuamente senza capirne il motivo e, ciò, scatenò molto presto il panico.
Come ricorda Nina Fefferman: le capitali di gioco divennero cimiteri a cielo aperto, tutti venivano infettati e a nulla servivano i tentativi di quei pochi che, improvvisando centri d’emergenza e coinvolgendo i personaggi con poteri curativi, cercavano di trovare una cura. Con buona parte della popolazione decimata (i più colpiti furono i giocatori di livello basso, l’equivalente di bambini, anziani o immunodepressi) i centri abitati si svuotarono: alcuni capirono il rischio ed evitarono di entrare nel gioco, altri, presi dalla curiosità, andarono a vedere cosa succedeva sottostimando il contagio e, prendendo a viaggiare, diffusero ancora di più il virus. La pandemia, inoltre, si diffuse anche tra gli animali e tra i personaggi gestiti dal gioco (NPC), i mercanti ad esempio, che divennero veicoli di infezione asintomatici. La Blizzard le tentò tutte per correggere l’errore, quarantena compresa, ma alla fine non poté far altro che chiudere i server colpiti riportando il gioco a prima del rilascio dell’aggiornamento.
“Quel che accadde in World of Warcraft, dopo la pandemia, fu una lunga sequenza di accuse alla casa produttrice per la gestione dell’emergenza e recriminazioni reciproche sui comportamenti tenuti durante il contagio”. La rabbia ruppe amicizie, creò malumori e dissenso generale. Per Fefferman guardando al presente già è possibile identificare i semi di un risentimento generazionale e fra Paesi, segno di quel che probabilmente ci aspetta. Il problema, conclude, è che “in questo caso il rischio non è l’azzeramento di qualche server, ma una ferita creata dalla sfiducia reciproca che richiederà molto tempo per essere rimarginata”.