Prosperous Network

Confrontarsi con una delusione: il caso di Aung San Suu Kyi e la pragmaticità del potere

In questi giorni, la vincitrice del premio Nobel per la pace ed eminente leader morale e civile (ma non politica, ci arriveremo più avanti) del Myanmar,  Aung San Suu Kyi, si trova a L’Aia, nei Paesi Bassi.

Iniziamo dalle domande semplici: cosa ci fa una delle più importanti personalità politiche della Birmania (l’Unione Europea accetta sia Birmania che Myanmar nei documenti ufficiali, ma anche sulla confusione del nome ci torneremo in seguito), una donna che ha combattuto contro la dittatura militare che aveva preso il potere nel piccolo Stato del Sud Est asiatico, una figura politica che ha ricevuto sostegno e apprezzamento da praticamente ogni leader mondiale nell’arco degli ultimi vent’anni per le sue lotte in nome della libertà, insomma, cosa ci fa una figura così importante in Europa e, in particolare, nei Paesi Bassi? La risposta è piuttosto semplice:

La Corte Internazionale di Giustizia, con sede a L’Aia, ha richiesto la presenza di un rappresentante del governo del Myanmar, che ha inviato proprio lei: Aung San Suu Kyi. Attualmente, infatti, è in corso un processo a L’Aia in cui il Myanmar è accusato di una cosa molto semplice: genocidio, o violazione della convenzione sul genocidio del 1948.

Due filoni distinti: cosa sta avvenendo in Myanmar e cosa sta facendo Aung San Suu Kyi.

Generalmente parlando, quasi tutti i media tradizionali hanno, in un momento o in un altro, parlato o quanto meno menzionato queste due facce della medesima medaglia (parole chiave: Rohingya, offensiva, dittatura militare, Birmania e Nobel per la pace).

In questo articolo si vuole ripercorrere queste storie, quella della minoranza musulmana in un Paese a forte prevalenza buddista e quella della grande leader, della sua parabola che da prigioniera politica di una dittatura militare l’ha portata ad essere la leader civile che, davanti alla Corte di Giustizia del L’Aia, nega con forza che vi sia mai stato un genocidio.

Per poter meglio spiegare entrambe le storie e come finiscano per intrecciarsi, pare opportuno aprire una parentesi storica sulla vita del Paese del Sud Est asiatico. Innanzitutto, il Myanmar era conosciuto, prima del 1989, come Birmania ma, a seguito di una legge emanata dalla giunta militare che ha governato il Paese dal 1962 al 2015, ovvero dal primo coupe d’ètat alle prime elezioni libere del Paese dagli anni ’60 (elezioni che il partito di una nota attivista politica vinse nettamente) il nome venne cambiato poiché l’originale, che in inglese è Burma, venne additato come sconveniente e discriminatorio, poiché faceva riferimento all’etnia maggioritaria dei Bamar.

Il regime quindi optò per un nome più “etnicamente neutro”, e scelse Myanma, a cui venne aggiunta una –r letteralmente solo per facilitare la pronuncia nelle altre lingue e, soprattutto, in inglese. Comprendiamo che le diatribe sulla neutralità etnica del nome non dovrebbero essere riassunte così frettolosamente, ma è anche vero che non sono nemmeno l’argomento dell’articolo.

Per spiegare la storia del Myanmar dobbiamo però fare un altro passo indietro, a quando, nel 1948, il Paese ottenne l’indipendenza dal Regno Unito, di cui era colonia, divenendo Stato a sé stante in un contesto già abbastanza complesso (basti pensare che il Myanmar confina territorialmente con Cina e Thailandia ed era la fine degli anni ‘40).

La vita da Stato indipendente e democratico durò poco, perché solo 14 anni dopo l’indipendenza, nel 1962, vi fu il primo colpo di Stato militare, guidato dal Generale Ne Wi. Come precedentemente scritto, quello fu solo il primo colpo di Stato militare del Paese, a cui ne seguì un altro, nel 1988, quando enormi proteste studentesche sconvolsero il Paese.

Queste manifestazioni, pur venendo duramente represse, costrinsero il generale Ne Wi a dimettersi.

Le dimissioni furono solo il trampolino di lancio per un altro generale, Saw Maung, il quale organizzò un colpo di Stato, prese il potere con la forza e impose la legge marziale sul Paese. Due anni dopo, nel 1990, Aung San Suu Kyi si presenta alle elezioni con il proprio partito, chiamato NLD (National League of Democracy in inglese). I risultati delle elezioni non piacquero ai vertici dell’esercito, i quali, arbitrariamente, decisero di rifiutarli, misero Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari e consegnarono la Camera bassa al partito vicino ai vertici militari, lo SLORC (o Consiglio di restaurazione della legge e dell’ordine di Stato).

Così, con quelle che sarebbero state le ultime elezioni libere dei seguenti vent’anni per il Paese asiatico, inizia la battaglia politica fra Aung San Suu Kyi e la dittatura militare che ormai spadroneggiava nel Paese. Questa battaglia durerà fino al 2010, e vedrà la figura di spicco della NLD diventare sempre più popolare e sempre più conosciuta in tutto il mondo, attraendo ogni tipo di personalità politica al suo fianco, in quella che sembrava una lotta fra repressione autoritaria e libertà.

Uno scontro ai limiti dell’epica, per cui vinse il Nobel per la Pace nel 1991 e che fu segnato da tragiche efferatezze che però non riuscirono a spezzare l’animo e la forza di volontà di quella donna così forte e così tenace. La sua determinazione fu tale che, pur di non abbandonare la lotta contro il regime militare, si rifiutò di lasciare il Paese resistendo alle pressioni delle autorità nel farla ritornare in Inghilterra, dove si trovava la sua famiglia. Così, anche quando il marito rimase vittima di un cancro, alla fine degli anni ’90, lei visse il lutto nella sua casa, nuovamente agli arresti domiciliari, in Myanmar, lontana da tutto e da tutti.

Ma allora come può una donna, che conosce così intimamente la definizione di sofferenza, decidere arbitrariamente di non riconoscere l’ordalia che stanno attraverso oltre settecentomila persone?

La storia dei Rohingya invece è tanto antica quanto controversa.

I Rohingya sono una minoranza etnica a prevalenza musulmana sunnita che sostiene autonomamente di vivere nel territorio del Myanmar e, in particolare, nello stato federato di Rakhine da secoli, più o meno dal quindicesimo secolo, quando all’epoca dei fatti si era sviluippato nello stesso territorio il regno musulmano di Arakan.

Bisogna tenere a mente questo dato, dato per buono anche in ambienti accademici, poiché le autorità birmane lo hanno sempre negato, al punto da non riconoscere la minoranza musulmana come aventi diritto della cittadinanza birmana già all’indomani dell’indipendenza del Regno Unito. Questa scelta viene giustificata dicendo che i Rohingya sono in verità di etnia bengalese, poiché in passato vi fu un forte flusso migratorio di lavoratori fra le varie colonie britanniche della zona che portò molti lavoratori del vicino Bangladesh a lavorare in territorio birmano, e che la storia del regno musulmano sia solo una scusa postuma e politica per motivare la loro presenza abusiva sul territorio nazionale altrui.

Questa retorica, che rendeva agli occhi dello Stato i Rohingya poco più che immigrati irregolari sul territorio nazionale, viene poi confermata dalla nuova legge del 1982 sul diritto di cittadinanza, per la quale è stata stilata una lista delle principali etnie presenti sul territorio nazionale, per un totale di 135 gruppi etnici, da cui furono esclusi i Rohingya e che, a causa della suddetta legge, non avrebbero più potuto richiedere la cittadinanza birmana. Praticamente, i Rohingya avevano subito una sorte simile a quella dei curdi e sono attualmente “stateless”, una popolazione senza Stato. Ma loro una casa ce l’hanno, ed il loro numero era anche seriamente consistente. Prima del 2017, i dati attestavano che circa un 1.1 milioni di Rohingya vivevano nello stato di Rakhine, nonostante il Myanmar rimanga poi un Paese a forte maggioranza buddista.

Però è proprio nel 2007 che la situazione precipita, ed effettivamente la goccia che fa traboccare il vaso (e scatena una tempesta di devastante portata) è un attacco dell’agosto 2007, in cui un gruppo di estremisti Rohingya, in risposta ai soprusi e alle violenze che il loro  popolo aveva subito per decenni, mette in atto un attacco coordinato con l’intenzione di colpire 30 diverse stazioni di polizia, per uno scontro dal bilancio di 12 vittime per i poliziotti e 90 per i militanti ribelli. Gli attacchi generarono uno scalpore consistente nell’opinione pubblica birmana e la risposta dell’esercito non si fece attendere. Inizia così una massiccia operazione militare nello stato del Rakhine, la quale viene motivata dal nuovo governo birmano come operazione di sicurezza e di contrasto alle operazioni terroristiche. Va ricordato, però, che ufficialmente il Myanmar, all’epoca dei fatti, non era più una dittatura militare. Nel 2010 si era avviato un processo di riforma e liberalizzazione, che portò alle due tornate elettorali del 2012, parziali di rinnovamento dell’Assemblea popolare, e del 2015, le prime elezioni politiche libere del Myanmar dal 1990.

Ed è proprio a quest’ultima tornata elettorale che Aung San Suu Kyi, ora libera e acclamata da tutto il mondo come paladina della libertà, presenta di nuovo il proprio partito, la NDL, alle elezioni, conquistando la maggioranza dei seggi del Parlamento birmano.

Quindi nel 2017, quando la situazione degenera definitivamente, è Aung San Suu Kyi a parlare a nome del governo, non in qualità di capo di Stato (attualmente, il Capo di Stato del Myanmar è Win Myint) ma come Consigliere di Stato, ruolo creato ad hoc per Suu Kyi dopo le elezioni del 2015. Ed è sempre la Consigliera di Stato che guida la delegazione che attualmente si trova a rispondere dell’accusa di genocidio a L’Aia.
La stessa che minimizzò la portata degli scontri, la quale ha sostenuto che le operazioni militari siano durate solo e unicamente fino al 5 dicembre e che si è sempre tenuta ben distante dal riconoscere le colpe dell’esercito nei recenti fatti di sangue; la stessa donna che non è intervenuta, quando due giornalisti Reuters furono arrestati per violazione del segreto di Stato poiché stavano conducendo delle indagini sulle violenze perpetrate nei confronti dei Rohingya.

Ma atteniamoci ai dati: stando a quanto riporta la BBC, dall’estate del 2017 più di 730 mila Rohingya hanno lasciato il Paese, dirigendosi via terra, con tutte le difficoltà connesse al non avere mezzi di spostamento e nemmeno delle infrastrutture di collegamento, verso il Bangladesh, oppure via mare, ma in numeri più contenuti, verso la Malesia (A tal proposito, la BBC ha realizzato un tragico quanto importante reportage sui campi profughi per Rohingya in Bangladesh)

Inoltre, il governo sostiene appunto che le operazioni militari siano terminate il 5 Settembre che non vi siano stati più di 400 vittime e che sia stato coinvolto solo personale militare birmano, accusando poi i Rohingya della distruzione dei villaggi nello stato.

Per quanto sia stato provato di tutto per bloccare qualsiasi tentativo, sia da parte dei giornalisti che da parte dei funzionari delle Nazioni Unite, di indagare più a fondo sulla questione, diversi media riportano come i morti siano stati almeno 6,700, fra cui, riporta sempre la BBC, si contano almeno 730 bambini, mentre Human Rights Watch sostiene che i villaggi distrutti siano 228 e che, attraverso l’analisi delle immagini satellitari, sia facile scoprire come le vittime dei roghi e della distruzione siano prevalentemente i villaggi Rohingya, mentre quelli delle altre etnie della zona siano rimasti intatti mentre tutto intorno bruciava. A tutto questo si aggiungono, come in ogni buon scenario di pulizia etnica – come alcuni hanno definito i tormenti che la popolazione dei Rohingya sta soffrendo – rapimenti e stupri di massa come regolare strumento di gestione della crisi in corso, nonché esecuzioni sommarie camuffate da schermaglie con i ribelli Rohingya. Il governo nega tutto questo, ovviamente, ed ha cercato di vendere a dei gruppi selezionati di giornalisti stranieri questa diversa narrazione dei fatti. Per l’ultima volta, la BBC ha avuto modo di partecipare a questi tour sponsorizzati dal governo e fare un po’ di fact checking.

Siamo quindi arrivati al presente, con Aung San Suu Kyi che guida la delegazione birmana a L’Aia, per difendere il suo Paese dall’accusa di genocidio, accusa formulata dopo una difficile (specie a causa del rifiuto di collaborare apposto pedissequamente dal governo birmano) quanto minuziosa indagine da parte di un’apposita commissione facente parte delle Nazioni Unite, nonché supportata da un numero crescente di inchieste giornalistiche, esposte sulle più diverse testate. Allora si arriva a questo punto, in cui si vede la paladina della libertà, la donna che per vent’anni è stata celebrata come coraggiosa condottiera nella lotta contro le oppressioni, la vittima di due decenni di arresti domiciliari e reclusioni imposti da quello stesso esercito che nessuno, e soprattutto non Suu Kyi, ha voluto apertamente accusare, pretendendo che si assumessero le loro responsabilità in quello che Marzuki Darusman, il presidente della commissione d’inchiesta della Nazioni Unite incaricato di fare chiarezza sulle vicende birmane,  ha definito “an ongoing genocide (is taking place)”.

Il curriculum politico, se non anche morale, di Aung San Suu Kyi parla da solo. I termini positivi, le celebrazioni, gli incoraggiamenti ed il supporto che una schiera pressoché infinita di leader di ogni parte del globo hanno espresso nel corso dei vent’anni che questa donna ha passato a combattere contro l’oppressione, anch’essi raccontano una storia chiara e ben precisa, che con ogni probabilità ha segnato i libri di Storia dell’inizio del nuovo millennio.

Eppure questa donna, davanti ai giudici della Corte di Giustizia Internazionale, riuniti in questi giorni per chiarire le responsabilità del Myanmar nella imponente crisi umanitaria di cui i Rohingya sono vittime, questa paladina della libertà, con voce ferma e la solita determinazione, ha dichiarato che non c’è stato alcun genocidio, che il Myanmar ha fatto tutto secondo le regole e che la crisi è stata solo ingigantita da notizie fuorvianti e ingannevoli.

Sono state date diverse interpretazioni, ormai, su cosa abbia traviato una figura politica e storica così importante, su cosa abbia trasformato quest’eroina degli oppressi in un’enorme delusione e disappunto. Personalmente, ho trovato estremamente romantica la narrazione per cui ormai questa donna, che ha combattuto tantissimo e che ha perso tantissimo nel corso della sua vita e delle sue lotte, sia ormai semplicemente stanca. Sarebbe legittimo pensare che ormai, dopo tutto quello che ha fatto e tutto quello che ha subito, lei abbia deciso che non ne valga più la pena, poiché, grande condanna di chi sacrifica la propria vita per lottare nel disperato tentativo di cambiare le cose, comunque non potrà assistere alla piena realizzazione dei suoi sforzi (che, nel caso di  Suu Kyi, immagino significhi un Myanmar libero dall’oppressione e dall’ingombrante presenza dei militari, indipendente e democratico).

Va ripetuto, però, che questa è una narrazione assolutamente romantica, perfetta per un romanzo ma spesso e volentieri un po’ distante da una realtà pragmatica e brutale, che Suu Kyi ha sperimentato sulla propria pelle. Ecco, il mio contributo alla discussione, invece, è più razionale.

Quello che sta facendo Aung San Suu Kyi è terribile, senz’altro, ma anche perfettamente naturale. Una donna ha combattuto tutta la vita per arrivare nella posizione in cui è ora, un posto da cui può vedere tutto e forse, con ancora più impegno e ancora più dedizione, potrà imprimere un reale cambiamento nel tessuto sociale, politico e culturale del suo Paese. Ma, come ogni posizione, questa non può essere data per scontato, specie quando è così in alto e soprattutto con i precedenti di instabilità che il Myanmar può vantare.

Quello che è successo ad Aung San Suu Kyi è la degenerazione del Potere, passato dall’essere un obiettivo da raggiungere per poter concretizzare tutti i propri sforzi ad una posizione che deve essere mantenuta a qualsiasi costo, se si vuole ottenere quel risultato per cui tanto si è faticato. Per quanto sia brutto da dire, per lei i Rohingya non sono che un incidente di percorso, che però l’hanno scaraventata in una posizione angusta e claustrofobica. Certo, le inchieste giornalistiche hanno rivelato una sterminata quantità di particolari raccapriccianti, sia per quanto riguarda le inchieste sul luogo dei fatti sia per quanto riguarda la raccolta delle testimonianze di chi quelle cose le ha vissute davvero. E ancora, le indagini della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite hanno formulato precisi quanto devastanti capi d’accusa, fra cui la violazione della Convenzione sul Genocidio del 1948.

Ma cosa può fare, realmente,  Aung San Suu Kyi? Accusare apertamente quegli stessi militari che l’hanno tenuta agli arresti domiciliari per vent’anni? Quegli stessi militari che con una riforma costituzionale sulla fine del primo decennio degli anni 2000 hanno imposto che il 25% dei seggi della Camera bassa del Parlamento siano assegnati d’ufficio a rappresentanti dell’esercito? Quello stesso esercito che, senza pensarci due volte, al primo segno di rottura della fragilissima tregua fra governo e società da una parte e vertici militari dall’altra, con ogni probabilità non farà altro che riprendere le armi e arrestare tutti gli esponenti civili e politici, esattamente come aveva fatto quasi trent’anni fa?

In Scienza Politica, spesso e volentieri, una parte consistente della ricerca è dedicata alla categorizzazione dei regimi autoritari (e sulla fondamentale differenza fra regime in senso neutro, dittatura come termine completamente inutile in ambito scientifico, autoritarismi e totalitarismi). Senza scendere troppo nei dettagli, all’interno di questa sezione specifica si finisce per studiare l’analisi dei regimi autoritari militari, ovvero quella particolare tipologia di autoritarismo che nasce da un colpo di Stato militare. Questa tipologia ha una singolare particolarità: il ritorno alla democrazia non avviene, come di normale, attraverso uno spargimento di sangue. Se al potere c’è un’oligarchia di funzionari o una specifica fazione connotata ideologicamente, è difficile che questi personaggi lascino volutamente il potere, per cui il gran finale di queste tipologie di regime è una lotta reale, fisica e sanguinaria, che terminerà con un cambiamento di regime a seguito dell’eliminazione di chi personificava direttamente il regime.

Con i militari non funziona così, solitamente: di solito, si trova un accordo fra società civile e vertici militari che permette un graduale e genericamente pacifico ritorno alla democrazia, che poi culmina con l’espressione preferita del mio professore, ovvero “il ritorno dei militari nelle caserme”. Questo perché non puoi eliminare l’esercito di uno Stato, esso è un pilastro tanto importante quanto minaccioso.

Esistono strumenti e istituti che possono bilanciare questa minaccia, ma di certo non possono cadere dal cielo all’indomani della fine del regime militare. Questa purtroppo è la sorte che sta toccando ad Aung San Suu Kyi: ha raggiunto la posizione che ambiva, ma è abbastanza intelligente da sapere quanto sia precaria e quanto sia pressante la minaccia militare.

Le sue parole sono dettate da quella pragmaticità imposta dal Potere, una volta raggiunto, e da nient’altro. Certamente la sua lotta potrebbe essere condotta in maniera differente e sicuramente lei potrebbe scagliarsi contro i militari, in difesa di una popolazione civile che sta subendo un massacro ingiustificato e che da decenni subisce l’oppressione di un governo che non li riconosce e li identifica come immigrati irregolari anche se quella è loro casa.

Non ci sono dubbi che sia necessario un impegno maggiore e che si debba richiedere una soluzione concreta e reale, ma, al tempo stesso, va tenuto in considerazione un contesto che, volenti o nolenti, risulta più grande, più drammatico e più cinico.