Laureato in Storia e critica del cinema, studia Informazione ed Editoria presso l'Università di Genova. Appassionato di tutto ciò che riguarda l'audiovisivo e la parola scritta.

E ora qualcosa di completamente diverso

Tempo prima che inizi la sua carriera da critico cinematografico, prima delle videorecensioni e delle interviste, prima degli articoli e delle apparizioni televisive, Francesco Alò è uno studente del DAMS di Bologna che cerca un argomento su cui svolgere la tesi di laurea. Nonostante la giovane età, già in quel momento, in quella scelta, si intravede tutto l’essere professionale di un giornalista serio e che segue con coraggio le proprie passioni. Francesco infatti si laurea in estetica, con una tesi sui Monty Python. Nessuno, prima di lui, aveva scritto sul gruppo comico britannico in Italia. Ciò, che oggi è un limite facilmente sormontabile, allora costituiva un problema di fonti non da poco. Il suo lavoro però è diventato il primo libro del nostro paese sul tema.

Oltre alla pubblicazione di Monty Python – La storia, gli spettacoli, i film (Lindau, 2004), dal 2014 è recensore e redattore per BadTaste.it, sito di informazione cinematografica tra i più seguiti in Italia. Per la pagina web (il cui canale youtube conta 14 000 iscritti), Alò realizza videorecensioni, interviste, reportage dai festival e saggi. Scrive poi per Il Messaggero da ormai sedici anni.

Anticonformismo, preparazione e talento sono solo alcune parole per descrivere Francesco Alò, parole che, ovviamente, lo accomunano ai Monty Python.

L’intervista a Francesco Alò

Vorrei partire da quello che, credo, sia stato l’inizio del Francesco Alò critico. Ti sei laureato al DAMS con una tesi sui Monty Python, che poi è diventata il primo libro italiano sull’argomento, e, in generale, mi sembri sempre molto attento alla comicità ed ai comici. Quando e come è nata questa tua passione per ciò che concerne la risata?

Beh, nasce da me. è anche la cifra che cerco di dare costantemente al mio lavoro facendo lo spiritoso sull’importanza del carattere e della personalità dell’analista, che non è oggettivo, non è un robot. Ognuno è figlio di sé stesso purtroppo, dell’epoca e della famiglia che l’ha cresciuto. Questo mio interesse spasmodico nei confronti della comicità e soprattutto della figura del comico a livello sociale, che mi vede in compagnia di Dario Fo ad esempio, deriva da me. Penso che il senso dell’umorismo sia molto importante, sono una persona profondamente umoristica, rido molto di me e della vita. Ci sono persone che non hanno una propensione per il senso dell’umorismo e per l’ironia e ciò, se sono critici, li porta a prediligere altri generi. Per me il senso dell’umorismo è filosoficamente fondamentale per vivere. È chiaro che a questo punto sono stato indirizzato verso la commedia.

Quindi è nata prima questa passione, quella per il cinema, oppure vanno di pari passo?

Ripeto, è una cosa molto organica, non c’è un prima e un dopo. È come siamo noi come persone. Conosco critici cinematografici che non hanno senso dell’umorismo, non lo hanno proprio. Ma come posso conoscere un macellaio che non ha senso dell’umorismo e neanche è interessato in esso. Non c’è niente di male, non sono persone che reputo inferiori a me, è un gusto. L’ironia è un gusto che coltivi, a cui pensi. Io la prendo molto sul serio, per me è molto importante per vivere. Fa parte di me, ripeto è una qualità naturale che ho applicato al mestiere. Non c’è un prima è un dopo, c’è un interesse per il cinema che sarebbe potuto esserci anche qualora non avessi avuto questa attenzione spasmodica verso il senso dell’umorismo.

Quali sono i comici, cinematografici e non, da te preferiti? Non necessariamente i più importanti.

Beh, i Monty Python e Woody Allen sono i miei padri. Non sono neanche i miei comici preferiti, sono proprio i miei padri, è diverso. Sono persone che mi hanno insegnato a vivere, io leggo il mondo attraverso la loro lettura del mondo, che è politica, sessuale… nel caso di Allen fa molto ridere usare questo termine. Sono punti di riferimento anche quando sono seri, soprattutto quando sono seri. La commedia deriva da una riflessione serissima, alcuni comici sono profondamente depressi, usano quella cosa per reagire al loro male di vivere. Alcuni, come appunto i Monty Python e Allen, sono molto riflessivi, pensano molto a quello che fanno, a come lo fanno, agli effetti che loro azioni possono avere.

Se devo essere sintetico, che è contro la mia natura come avrai capito, devo dire che i miei comici preferiti sono quelli costruzionisti, quindi oltre alle due entità prima citate, i padri dell’audiovisivo comico, Buster Keaton e Charlie Chaplin. Quelli che hanno affrontato il prodotto audiovisivo dominandolo, entrano nella cabina di montaggio, di regia. Preferisco loro che hanno preso in mano il mezzo rispetto a grandissimi comici, come Totò o i fratelli Marx, che hanno avuto meno le redini e la conduzione della giostra.

Nanni Moretti lo considereresti un comico?

Questa è una domanda molto interessante, che apre un dibattito estremamente complesso. Quando ero giovane, io sono della generazione delle videoteche, ne frequentavo soprattutto una del quartiere dove sono nato a Roma, mi colpì molto per esempio una frase nella copertina del VHS di Palombella Rossa. Un critico cinematografico, in questi meccanismi orribili di estrapolazioni di frasi di cui sono vittima anche io, scrisse questa cosa che mi spinse a riflettere nella direzione della tua domanda. Le cose in questa intervista si cominciano già a collegare magicamente perché lui scriveva “Woody Allen è un comico della testa, Moretti è un comico della pancia”. Era un cineasta che io adoravo e che ha accompagnato molto la mia adolescenza, anche in una chiave ossessiva; io conosco praticamente a memoria il suo cinema, che ora non amo particolarmente, ma che definisco strabiliante fino a La Stanza del Figlio. Erano film che mi parlavano molto quando ero giovane.

Io a quel tempo non lo consideravo un comico. Fu uno shock che lui venisse così definito, in Italia non era considerato un comico. Invecchiando, riflettendo, sempre più lo vedo come un comico, come un figlio della commedia all’italiana. Mi sembra di riscontrare indizi molto forti riguardo una sua passione verso i grandi della commedia all’italiana, Age & Scarpelli o Benvenuti e De Bernardi, che erano presenti allo storico scontro di Match (trasmissione RAI degli Anni Settanta, ndr).

Ma infatti, già in quel dibattito, Monicelli definiva Io Sono un Autarchico nient’altro che una commedia all’italiana moderna.

Sono completamente d’accordo. Guarda, quello scontro è fantastico. Oggi, rivedendolo dopo tanti anni, ha totalmente ragione Monicelli. È interessante perché Moretti, che è un genio del marketing, si lanciava genialmente come il ribelle del sistema. In realtà era un trucco. Monicelli che faceva un po’ il vecchio fascistoide, “colonialista” lo definisce in modo molto interessante Moretti. Ma in realtà lo scontro tra il fascista e il giovane ribelle capellone era un teatrino, Moretti genialmente andava ad occupare uno spazio mediatico, interpretava un ruolo. Quello che lui fece all’inizio della sua carriera era una commedia all’italiana in cui si raccontava la sinistra extraparlamentare, la borghesia romana giovane e comunista, ovvero un ambiente che lui frequentava, con uno sguardo ironico e profetico sul pressapochismo di questa generazione.

Michele Apicella è uno straordinario personaggio comico. È una tra le più importanti maschere del cinema italiano. A me manca molto, Moretti lo uccide, o non lo uccide, alla fine di Palombella Rossa. Visto che lui è un genio del marketing, nonostante i colpi persi negli ultimi anni, gli consiglierei una cosa molto commerciale: fare tornare Michele. Riprenderebbe i vecchi Morettiani come me e creerebbe un grande interesse mediatico, di giornali, di riflessioni e dibattiti. Ripeto, Michele è una delle più grandi maschere del cinema italiano. Ed è comico, in qualsiasi sua incarnazione, che sia un professore di matematica, sia che sia un parlamentare comunista che ha perso la memoria, sia che sia quel giovane esilarante di Io sono un Autarchico ed Ecce Bombo, o il regista riottoso di Sogni d’Oro.

Enzo Biagi diceva che da piccolo sognava di fare il giornalista perché lo immaginava come un ‘vendicatore’ capace di riparare torti e ingiustizie. Tu perché hai scelto questa strada?

Intanto io sono figlio di giornalista, questa cosa probabilmente mi ha influenzato. Sono figlio di un grande giornalista economico quale è stato papà. Mi ha molto influenzato, nonostante mio padre inconsciamente abbia cercato sempre di non farmi fare la sua professione; mio padre è una persona molto particolare, viveva il suo mestiere in un modo altrettanto particolare. Senza enfasi e senza piacere. Questa cosa probabilmente a livello psicologico ha lavorato su di me in modi strani. Mi sono trovato a poter scegliere di fare questo stranissimo mestiere, peraltro in una posizione molto debole che è quella del cinema e del critico, che una cosa molto diversa dal giornalista.

Probabilmente è tutta colpa di papà, come sempre. Tutta colpa dei miei traumi, dei miei complessi di inferiorità e della voglia di uccidere mio padre.

Durante la tua vita hai mai sentito l’impulso a, per così dire, “passare dall’altra sponda” e diventare uno sceneggiatore o un regista?

No. Ho avuto delle minuscole esperienze, una peraltro molto divertente con Edoardo Leo, che ancora oggi mi prende molto in giro in qualsiasi tipo di incontro pubblico, e fa bene. Non c’è niente più divertente che prendere per il culo il critico che un pochino è emerso ricordando il suo passato da artista mancato. In realtà, glielo faccio fare perché mi diverte molto che qualcuno mi insulti. È stato un momento breve dove ho capito immediatamente che non ero assolutamente in grado. A livello mentale soprattutto, loro fanno una vita più difficile, più pericolosa, più estrema della mia. Questo mi ha subito molto spaventato. Poi non sono uno che ha una passione per la tecnologia e il prodotto audiovisivo necessita di un interesse per il mezzo meccanico. Non credere mai a quelli che dicono “io sono un poeta, lascio il resto al direttore della fotografia”.

Di fronte a dei minuscoli tentativi, provando a fare due o tre cosettine, provai subito una sorta di ribrezzo. Amavo molto vedere i film e parlarne, pensarci, cercare di capire come agivano quelle cose sulla vita delle persone. È questo che mi ha portato a fare questo mestiere con grande gioia, anzi più invecchio, più li conosco e più mi fanno una grande tenerezza perché loro fanno una vita più difficile della mia. Ne parlavo con Muccino, ma in generale in tutte queste videointerviste lo dico. È una cosa a cui penso molto in questi anni. È una vita che mi spaventa e che non riuscirei a fare con il carattere che ho, mi suiciderei probabilmente. Cadrei in profonde depressioni. Li ammiro molto, ma stanno in un gioco terribilmente pericoloso per la loro psiche e per il loro corpo.

Negli ultimi anni, social ed internet hanno attuato una democratizzazione della critica cinematografica.  Come ti rapporti con questo fenomeno e quali sono le sue conseguenze sull’editoria?

È un cambiamento molto interessante, collegato all’accesso ad un mestiere che già prima non era particolarmente considerato all’interno del giornalismo. Mio padre era un giornalista serio, io non lo sono. Come diceva Truffaut, se al direttore del mio giornale la moglie dice che non è d’accordo col critico, il primo dà ragione alla moglie. Noi siamo derisi e non considerati inattaccabili. Certo, a meno che il critico, per una questione di età, non arrivi ad un rispetto decoroso della persona. Siamo figure fragili.

Quando in un paese dove siamo tutti allenatori della nazionale, è arrivata questa forma di democratizzazione ha creato uno sconcerto. C’è un accesso al cinema che prima non c’era e quindi alla stessa produzione di critica. È un momento di crisi devastante e le nuove generazioni che vogliono fare questo mestiere si devono preparare al peggio, perché la produzione è disastrosa, soprattutto nella vecchia editoria. Lì, secondo me, non ha più senso fare critica. 

La critica è solo nel web, è lì che bisogna andare, è lì che si radunano gli appassionati di cinema al di sotto degli 85 anni di età. Per cui è chiaro che per chi di noi vuole avere un futuro, cancro o altre disgrazie permettendo, è necessario non avere esclusivamente a che fare con persone che hanno più di 65/70 anni. Devi avere a che fare con gente che, in teoria, pagherà il tuo stipendio tra 20/30 anni.

Tutto ciò ha creato uno sconcerto terribile perché il sapere cinematografico è più accessibile. Gli appassionati posso leggere e trovare cose ovunque nel mondo. C’è una profonda frattura generazionale tra appassionati e i critici che non hanno la giusta competenza. La democratizzazione ha portato ad avere molte persone bravissime, alcune migliori dei critici professionisti. Il professionismo però è necessario per avere un ruolo sociale e anche per dargli una sorta di indipendenza, non editoriale (il rapporto con l’editore è fondamentale, meno male che io ce l’ho con BadTaste.it).

Se non percepisci del denaro e non entri in un certo tipo di dinamica, sei in balia degli eventi. Non essere un professionista è pericolosissimo perché ti porta a pensare che quando un regista ti parla allora è bravissimo… Bisogna avere una distanza che questo processo di democratizzazione non crea. Io vedo persone molto brave che nel momento in cui sono avvicinate dal sistema non hanno gli anticorpi per poter comunicare.

Un critico deve essere pagato per poter essere insultato, pestato, ma per poi avere un ruolo. Se il critico non è pagato è finito tutto.

Ma pagato da un editore? Perché è da considerare che anche Youtube paga per le visualizzazioni.

Un critico pagato da Youtube non è un professionista. È una questione molto semplice: Federico Frusciante non viene alle proiezioni stampa. Con lui ne parlo da anni, io vorrei che Federico entrasse, è il numero uno degli outsider. Io invece sono un outsider all’interno del sistema. Ci stiamo molto simpatici perché abbiamo qualcosa in comune anche se apparteniamo a mondi totalmente diversi. Fino a che lui non è inserito dagli uffici stampa in un meccanismo professionale, è bravissimo e monetizza qualcosa con Youtube, ma gli manca un passaggio, che so che lui vorrebbe anche fare e che forse farà.

Il sistema è morente soprattutto per alcuni critici che vedono quelli fuori dal sistema come i grandi nemici. Io no, ho capito molto bene dove sta andando il nostro mestiere. Capisco però che a loro manchi l’idea di questo ambiente che darebbe loro qualcosa di psicologico. È inutile che ci diciamo le stronzate, avere il patentino sociale di critico è importante. Io in questi anni ho difeso con le unghie e con i denti il mio ruolo di quotidianista per il Messaggero. È una questione simbolica, ma fa di me un critico, tra virgolette, importante perché lavoro per un quotidiano, che il massimo dell’ambizione per un critico.

È insomma un momento di transizione ma non è qui che si giocherà la partita. La critica quotidianista potrebbe diventare eccezionale, ma solo attraverso il web e con una fortissima interazione tra presenza del critico sul cartaceo e sul web.

Secondo te, i giornali, più o meno importanti, si stanno mobilitando o sono ancora stantii ad una vecchia idea di critica?

Per me lo dovranno fare per forza. Non so, io non sono lì dentro. Bisognerebbe frequentare quei corridoi, partecipare alle riunioni di redazione. È chiaro che va fatto un discorso sul web mantenendo una presenza sul cartaceo per i lettori dai 60 anni in su, che comunque incidono nel sistema. Una critica di Frusciante è molto potente verso una generazione, un’altra che viene letta da un centesimo delle persone che guardano i video di Federico può essere però letta dall’amministratore di RAI Cinema. Ciò rende il critico quotidianista più politico, più efficace, ma solo all’interno del circoletto del cinema italiano. È ancora qualcosa che ha però un significato.

Però c’è un’altra Italia, diversa dalle terrazze di Sorrentino, dove c’è la critica vera, che è quella di Frusciante.

Si sono adeguati? Ancora no, ma è necessario. Perché altrimenti scomparirà la critica dai quotidiani.

Parlando di fruizione online: il festival di Cannes, dopo le polemiche dell’anno scorso, ha deciso di non accettare film Netflix. Vorrei sapere cosa ne pensi di questa scelta e, più in generale, del cambiamento nella fruizione del cinema.

Io in questo dibattito vedo Cannes in una posizione di estrema retroguardia, per interessi anche economici legati ad una difesa dello Stato del cinema. Loro fanno una battaglia politica dignitosa e rispettabile. Mi sembra che il mondo vada completamente in un’altra direzione ed è interessante che Venezia lavori in chiave opposta. Venezia, anni fa, mise in concorso subito una delle loro prime produzioni, che era Beast of no Nation di Cary Fukunaga. È importante ricordare queste cose, quello con Idris Elba era un film dignitosissimo. Io non credo assolutamente nelle distinzioni. Cannes è in profonda crisi perché Venezia la ha superata clamorosamente, è in riflessione su sé stessa. Un tempo scopriva il nuovo cinema, sia che fosse Easy Rider, Apocalipse Now, Lynch o Tarantino. Ho citato quattro tappe importantissime della storia di Cannes, ma che sono tappe fondamentali anche del cinema tutto. Lo stesso Spielberg, con Sugarland Express.

Quando ero giovane, sapevo che da lì arrivava il cinema del futuro e gli autori che avrebbero segnato i 30 anni successivi. Adesso questo non accade più, forse dai tempi di Drive di Refn, ormai di 10 anni fa. Venezia invece ha fatto un geniale patto d’acciaio con l’Oscar, che arriva con la vittoria di Del Toro ad una novità importantissima ed epocale. Tutto cambia, non credo che le barricate aiutino a lanciare nuovi geni dell’audiovisivo. Basta cinema, ormai si parla di prodotto audiovisivo. Non puoi fare le barricate, non puoi fermare qualcosa che non sparirà nel giro di poco tempo, ovvero Netflix.

Anche per quanto riguarda la tutela della sala cinematografica in sé?

Non ha futuro. Non è sexy come offerta quella di mettere un film alle 22.30, alle 14.30 eccetera… Infatti stanno andando bene queste forme di “o lo vai a vedere ora o lo hai perso”.

Sì, per esempio i film solo 3 giorni al cinema.

Beh sono molto più sexy. Ci sono queste sale desolate, vuote e tristissime perché se so che posso andare a vedere un film sempre, non ci vado. Invece se so che una cosa c’è 3 giorni mi muovo. Le sale si devono ridimensionare, in Italia escono una media di dieci film a settimana, è folle. Film che non hanno alcun tipo di senso legato alla sala. Io parlo di prodotto audiovisivo, io penso che un prodotto sia bello anche se lo vedi al computer. Non dico sul cellulare, però quasi.

Le nostre case saranno sempre più dei cinema. Le nostre sale sono brutte, gestite malissimo, senza cura. Perché dovrei uscire di casa e fare qualcosa di faticoso? Un tempo si fuggiva da casa propria, oggi ci si rifugia. È cambiato il mondo, almeno quello occidentale. Secondo me BadTaste.it deve arrivare all’idea della gestione della sala laddove essa diventa luogo di incontro, di dibattito, di retrospettiva. Il cinema di prima visione non ha più un grosso futuro. Bisogna ridimensionare tutto e curare meglio la sala, farla diventare un luogo dove è bello andare, dove magari c’è qualcuno che introduce il film. È necessario dare qualcosa in più al consumatore.

Anche perché la democratizzazione porta il cinefilo a moltiplicarsi nella società e a dire “se io tengo di più a questo lavoro di Lynch me lo guardo a casa mia”. Bisogna creare luoghi dove vanno persone che amano andare in quello spazio. La gente che non ama andare al cinema non ci va più. Un tempo sì, c’erano meno offerte sociali eccetera. Oggi possono stare a casa a vedere cose pazzesche, è inutile girarci intorno, perché bisognerebbe andare al cinema? Nella mia video intervista a Gianni Romoli racconta di come i personaggi sullo schermo fossero più grandi di noi.

Oggi no, siamo noi più grandi quando guardiamo un film al computer. Io ho un 11 pollici, spesso vedo i film lì. Invece Gianni, nella intervista migliore che ho fatto, racconta quello che è stato il Novecento, quello che è stato il cinema. Lui dice che qual qualcosa ha cambiato la società anche perché era gigantesco, era enorme e stava sopra di noi. È ovvio che ha ragione, è ovvio che quello sguardo verso l’alto di Mia Farrow ne La Rosa Purpurea del Cairo oggi non esisterebbe, perché oggi un sincero appassionato di cinema, non più ignorante del personaggio del Cairo, sta a casa, si mette le cuffiette, magari è una casalinga e si vede una puntata di Big Little Lies in modo che lei sia più grande di Nicole Kidman.

Cambia tutto, ma non la fruizione del prodotto, siamo sempre a vedere con gli occhi immagini in movimento. Cambia il luogo, cambia in poche parole il cinema, che non può essere la stessa cosa del passato. I passatisti, tra cui l’amico Frusciante, se ne devono fare una ragione.

Ultimamente ho recuperato una frase divertentissima di Billy Wilder, “ah ma che bella la televisione, un tempo noi eravamo considerati la forma d’arte più ignobile del mondo”. Grande ironia, per tornare all’inizio dell’intervista, ha un doppio livello di lettura, un aforisma geniale che ho usato all’inizio di un saggetto collegato a A Quiet Place, un film figlio della televisione. Ed ha avuto un grande successo cinematografico, fa tornare la speranza, un po’ come It l’anno scorso. Cinquanta milioni di dollari al box office oggi non li fa nessuno, mentre Krasinski li ha fatti con questo filmettino minuscolo simile ad una puntata dell’ottava stagione di The Walking Dead o di Falling Skies.

Dire che il cinema dovrebbe tornare quello di un tempo è folle. Godard faceva un tipo di lavoro perché sapeva che colpiva il borghese che lo andava a vedere. Oggi il borghese non va più in quel luogo, si è persa la sacralizzazione del cinema in quanto contenitore di dibattiti sociali.

Ultimo Tango a Parigi oggi, al cinema, non creerebbe nessun tipo di sconcerto.

Perché credi che il futuro del cinema siano i videogiochi?

Perché i videogiochi in questi ultimi anni hanno attirato dentro il proprio meccanismo personalità che vengono dal prodotto audiovisivo. Compositori musicali, Hans Zimmer, sceneggiatori, attori, registi pensano di andare in quel mondo. Spielberg è interessato, così come Zack Snyder o James Cameron. Queste cose che vediamo sono molto belle a livello audiovisivo. Se il mio personaggio di Skyrim è affascinante quasi come Aragorn in una inquadratura di Peter Jackson sono cazzi. Il cinema ha antagonisti oggi.

Io che sono uno di quelli che non ha amato Ready Player One, anzi mi ha abbastanza rotto i coglioni, vengo comunque da quella cultura del videogame. Erano brutti esteticamente. Oggi sono eccezionali e hanno storie bellissime. Mia moglie gioca a Syberia, Beyond… Io impazzisco per The Witcher, che è incredibile per noi che amiamo al fantasy. Lo paragono al Trono di Spade, ha inserito il sesso e la politica dentro al genere, creando un grande interesse. Skyrim è più vicino alla spiritualità Tolkeniana. Sono prodotti eccezionali. Se ci sono attori, sceneggiatori che lavorano lì, scenografi che curano le scenografie, montaggio e regia sono curati come mai, tanto che ci sono i videogame a film, quelli che piacciono tanto a noi vecchi, ma magari meno ai giocatori veri.

Penso a LA Noire, ispirato alla letteratura di James Ellroy, videogioco eccezionale a livello di storia, di personaggi. Io vedo film che sono meno affascinanti. È un prodotto audiovisivo che sulle nostre televisioni casalinghe può benissimo gareggiare con il cinema. Ovviamente i cineasti si avvicinano a questo mondo sempre più simile al cinema. Pensa alle possibilità che ci sono per gli attori italiani, anche in sede di doppiaggio.

Poi quando arriva la notizia che i profitti globali di Call of Duty hanno superato quelli totali di Avatar torniamo alle questioni che un bravo analista deve registrare. Un bravo critico è un dignitoso storico. Quando lessi quella notizia pensai “è fatta” e una persona più intelligente di me come Steven Spielberg pensa “forse i nostri giochi stanno per finire, meglio andare da un’altra parte”. Si tratta sempre di essere non italiani. Noi siamo un paese fascista, conservatore e finito. In altre parti del mondo c’è gente che corre.

A proposito di fascisti, conservatori e finiti, quest’anno si parlava della possibilità di vedere Loro di Sorrentino proprio al festival. So che non sei il primo dei suoi ammiratori, ma cosa ti aspetti dal doppio film su Berlusconi?

Niente. Io Sorrentino lo adoro, per me è il più grande regista commerciale che abbiamo. Nel momento in cui abbiamo perso un asset fondamentale come il cinepanettone, Sorrentino è il nuovo cinepanettone. I sorrentiniani si indignano perché lo considerano un grande artista, ma per me è un grande cineasta che arriva e fa la cosa che deve far incazzare. Io sposo totalmente l’idea del “chi se ne frega di Cannes”. Questo è un film che deve fare i soldi, deve portare uno che ha un complesso di inferiorità a pensare di andare a vedere l’arte e spendere 8€. Un’idea geniale. Di Berlusconi ne abbiamo visti tantissimi, eccezionale ne Il Caimano di Moretti, molto bene quello di Pierobon in 1992/1993, perciò quello di Servillo non so cosa possa aggiungere. Peraltro Silvio è vivo e vegeto e lotta con noi. È stato straordinario ieri in uscita dalle consultazioni.

E allora come puoi superare Berlusconi? È un film diviso in due parti, una saga. Lo Hobbit è la versione cinica de Il Signore degli Anelli, noi amanti lo abbiamo capito. Io non sono credente, ma qualora lo fossi sarei protestante, mai potrei essere cattolico. Credo nel capitalismo, mi stanno simpatici quelli che vogliono incassare. Non ho il tipico problema cattocomunista del Pecunia è Peccato, non ci credo, è un’ipocrisia. Chi sta nel mondo cinematografico deve sopravvivere.

Sorrentino è un trademark, il film è un’operazione commerciale. Se mi chiedi se mi interessa cinematograficamente, sulla carta è ovvio che no. Non penso che ci darà un’idea di Berlusconi diversa, non penso che scriverà un personaggio sorprendente. Spero che mi piaccia però, Sorrentino lo vedo molto cattivo, molto ambizioso. Se poi mi piacessero anche i suoi film sarebbe il massimo.

Vero. Ha fatto un lavoro eccezionale nel vendere la figura Servillo/Berlusconi, che non compare mai nei trailer. Da quel lato è inattaccabile.

Quel lato è il lato. Lui è un regista commerciale. Micheal Bay è un regista più complesso e interessante di Sorrentino da un punto di vista cinematografico. Lui ora è vitale per noi, vende con il suo nome. Io lo stimo moltissimo. Lui deve fare James Bond. The Young Pope è la prova generale per un film su 007, l’unica cosa interessante della serie è il bottone sotto alla scrivania del papa cattivo, un’idea alla Spectre. Lui adora Scarface, Scorsese. Non è ipocrita, è un grande imprenditore. L’Oscar ti segna, è un trademark, dopo te la devi giocare.

Lo sogno a dirigere un Bond, primo perché non glielo farebbero scrivere, così potrebbe essere interessante. Accadrebbe qualcosa sullo schermo. Potrebbe essere un “Bond dolce vita”. È il tipo di regista che molti italiani non sanno essere, ha capito le regole del gioco a cui sta giocando. Come posso non amarlo? Anche solo che da patriota.  Non mi piacciono i suoi film, ma solo il mio piccolo gusto da critico di merda quale sono.

Berlusconi ci fornisce l’assist per cambiare totalmente argomento: in una delle tue straordinarie interviste per BadTaste.it ti definisci un “critico superdotato di sinistra”. Ora, sorvolerei sul primo aggettivo per chiederti come sei uscito dai risultati delle ultime elezioni del nostro paese.

Mah… Ho perso interesse per la politica italiana tanti anni fa. Per me l’essere di sinistra non c’entra nulla con la politica, è una cosa che faccio quando sto al supermercato, per strada, con la moglie o con un amico. Va al di là di queste vergognose cose italiane. Sono molto distaccato, io appartengo ad una generazione che è stata distrutta. Voi siete nati nella merda, noi ce la siamo trovata dentro casa. Chi passa la vita dai suoi vent’anni ai suoi quaranta, dal 1994 al 2014, è un miracolo che riesca ad avere un’erezione. Chi cazzo se ne frega delle elezioni, a me interessano le erezioni. Che un borghese che ha 40 anni nel 2014 riesca ad averne una è il più grande successo politico che si possa avere. Io ho assistito alla distruzione, alla decadenza totale del mio paese. Ho visto cose che voi umani non potete immaginare.

Voi siete arrivati in mezzo alle macerie e sarà vostro compito provare a ricostruire, ma non ho fiducia. Dopo quello che è stato combinato ci vorranno almeno 40 anni. Sono state elezioni dove si sapeva fin dall’inizio cosa sarebbe successo per via della legge elettorale. Mi interessa vagamente l’affermazione di nuovi personaggi politici, anagraficamente: 31 anni, 40… Però c’è il sempre il grande, “Loro” appunto, che ha in mano le redini, che ruba la scena al ragazzino. C’è stato un momento di grandissimo cinema ieri.

In Italia il problema è stato generazionale, non politico. Non esiste più la politica, ma solo le generazioni, e quelle lì sono tutte uguali. Quelli degli Anni Settanta sono nati che la polenta era finita e la salsiccia al centro era scomparsa. Sono molti i privilegi che una generazione ha avuto e che altri non avranno mai. Dobbiamo unirci, la Meloni, Di Maio e Salvini devono uccidere i vecchi tromboni che parlano ancora e che hanno in mano le redini del gioco in un paese vecchio e ontologicamente fascista.

Io non ho molta fiducia nell’Italia.

Quindi preferiresti una deriva Di Maio- Salvini?

Io non preferisco niente, sono nichilista. Quando uno è come me raggiunge un livello di nirvana. Avendo eliminato la politica come emozione, io osservo divertito. È ovvio che speravo in un’alleanza M5S – PD, da elettore del PD è quello che vorrei. Mi sono anche vagamente tornato ad appassionare ai talk show politici per un momento. Sono uno di quelli che dice che bisogna andare di corsa dal M5S e, dopo le scuse necessarie, provare a trovare un programma comune per rimettere in piedi il paese. Non lo auguro ai 5Stelle però, perché sennò tra 5 anni sono finiti. In Italia finiscono tutti, basta andare al governo. Ripeto siamo un paese profondamente fascista, abbiamo voltato le spalle a Renzi in un modo vergognoso. Siamo sempre alla ricerca del nuovo potente senza alcun tipo di idea o di visione. I politici sono la chiara espressione della società italiana.

Dovete migliorare le cose, non so se ce la farete mai.

Guardando i dati delle elezioni, si nota come i giovani votino ancora più M5S e Lega.

Ma certo.

Non trovi che il nichilismo nella nostra generazione sia già radicato come concetto basilare?

Certo, noi lo siamo diventati, voi ci siete cresciuti. Dove cazzo si va così? Che cosa dici a tuo figlio? Non a caso non ne ho fatti. Che idea di paese, che futuro hai? Tutti i ragazzini domani non voteranno più Lega e 5Stelle se quest’ultimi governano con persone che l’elettorato non tollera. Se vuoi una riflessione seria, credo ovvio che si tornerà a votare. A meno che non cambi tutto. Ma non credo che il M5S si possa permettere il trasformismo. In Italia si va avanti e poi si perde, all’infinito. Non vedo un’idea di percorso da fare insieme, come italiani. Ma perché mi fai parlare di politica?

Hai ragione, basta. Inoltre credo di averti portato via abbastanza tempo. Vorrei chiudere circolarmente tornando all’inizio. Tra 60 anni, la NASA chiederà a Francesco Alò di scegliere uno sketch dei Monty Python da salvare dall’apocalisse. Alò cosa risponde?

In pieno stile Monty Python, ti dico che non rispondo: Alò tra 60 anni è morto. Se tutto va come deve per il bene dell’umanità, speriamo che a 103 anni io non ci arrivi.

Grazie davvero della disponibilità, del tempo e della gentilezza.

Grazie a voi, mi raccomando togli le parolacce!