Nata a Gubbio, ora studentessa di Scienze Politiche presso l'Università degli studi di Perugia. Amo la fotografia, i libri, la musica e la politica. Una ne faccio, cento ne penso.

I TEST DI PYONGYANG: L’ESCALATION

L’ultimo capitolo della serie di provocazioni della Corea del Nord, dai test ai lanci di missili sempre più sviluppati, è avvenuto il 3 settembre a mezzogiorno ora locale.

Un test nucleare, il sesto della storia del regime, è stato effettuato con successo sperimentando la nuova bomba H, o bomba a idrogeno. La detonazione è avvenuta nell’apposito sito di Punggye-ri, nel nord del paese, provocando una scossa di magnitudo 6.3. Notizia confermata dalla stessa KCNA (Korean Central News Agency), l’agenzia stampa di Pyongyang.

Il possesso da parte del regime di una tale arma ha allarmato ancora di più la comunità internazionale. La bomba H, che utilizza la fusione invece della fissione, può essere fino a centinaia di volte più potente di una bomba atomica. Quello sperimentato dal regime, oltretutto, è un ordigno miniaturizzato e in grado di entrare dell’ogiva di un missile ICBM (intercontinentale).

Questo, come detto, è il sesto test nucleare mai effettuato dalla Corea del Nord. Il primo nel 2006, sotto il “caro leader” Kim Jong-Il, padre dell’attuale dittatore. La tensione era alta già all’epoca, tuttavia la vera escalation ha inizio con la presa del potere da parte del figlio, Kim Jong-Un, a dicembre 2011.

Alla morte del “caro leader”, infatti, dopo due giorni di colloqui diplomatici a Pechino si giunge ad uno storico accordo: il regime sospende ogni test nucleare e lancio di missili in cambio di aiuti alimentari da parte degli Stati Uniti. Nemmeno due mesi dopo però, il 12 aprile 2012, viene effettuato un lancio dalla Nord-Corea. Gli USA sospendono gli aiuti. Iniziano ora le provocazioni di Kim verso i “nemici”, a partire dai vicini sudcoreani, come l’annullamento dei patti di non-aggressione.  Le sanzioni ONU si inaspriscono di volta in volta, mettendo sempre più a rischio la disastrata economia nordcoreana.

Ma una domanda, a questo punto, sorge spontanea: come fa la DPRK a spendere così tanto in armamenti malgrado un’economia al collasso?

L’ECONOMIA NORDCOREANA

Essendo la Nord Corea un Paese socialista, l’economia è controllata interamente dallo Stato. Già a seguito della caduta dall’URSS, a inizio anni ’90, il Paese ha perso il suo principale partner ed ha visto il suo PIL ridursi di un terzo. Lo stato di salute dell’economia nordcoreana è disastroso: con un sistema basato sull’autosufficienza e sulla collettivizzazione dell’agricoltura, insieme alla condizione infima di infrastrutture e trasporti, è assai complicato per la popolazione rifornirsi di beni alimentari e medicine. Secondo l’ONU, circa i 2/3 della popolazione convive con la scarsità di cibo, e le numerose sanzioni vietano l’ingresso di beni dall’esterno.

Ad aggravare la situazione, gran parte della spesa pubblica è destinata a voci quali la spesa militare e il culto della personalità dei leader. La prima è dovuta all’ideologia “songun”, che affida un ruolo prioritario ai militari sulla popolazione; circa il 25% del PIL è destinato alla difesa, e visto il suo ammontare di 28 miliardi di dollari la cifra si aggira sui 7 mld. L’altra si rende indispensabile alla sopravvivenza interna del regime, basata sulla propaganda: solo il mausoleo dedicato a Kim Il-Sung, nonno dell’attuale leader e fondatore del regime, è costato 870 milioni di dollari. Spese del genere si rendono tuttavia necessarie alla sopravvivenza del regime contro possibili attacchi.

L’economia del Paese riesce a sopravvivere solo grazie alle relazioni con i partner commerciali a agli aiuti della Cina. E’ quest’ultima, infatti, la meta principale dell’export nordcoreano (83% secondo OEC). Seguono India, Pakistan e Burkina Faso.

LA MINACCIA ESTERNA

Ogni regime ha bisogno di un nemico, e l’ultimo totalitarismo al mondo non poteva essere da meno. La Corea del Nord lo ha sempre dichiarato: bisogna combattere “l’invasore capitalista”, incarnato dagli Stati Uniti e, di conseguenza, dai loro alleati asiatici Giappone e Corea del Sud.

Per questo Pyongyang non rinuncerà mai al suo arsenale e al programma nucleare: ne va della sua sopravvivenza. La lezione che viene dal passato è chiara; sia i regimi di Saddam Hussein (Iraq) e di Gheddafi sono stati destituiti dopo aver rinunciato all’atomica. Nessuna potenza nucleare, invece, è stata mai aggredita.

Questo è lo scopo dell’arsenale di Kim: scongiurare un attacco preventivo da parte di USA e alleati, oltre alla funzione di deterrente da usare sul tavolo delle trattative estere per ottenere aiuti e benefici.

Ma come si posiziona la Corea del Nord oggi nel complesso scacchiere geopolitico?

LA DPRK TRA USA E “MAMMA CINA”

La Corea del Nord ha come alleati “naturali” Russia e Cina. E’ soprattutto da quest’ultima che arriva la principale garanzia di sopravvivenza del regime, sia in termini economici che strategici. Questa tormentata alleanza va avanti sin dal 1953, data di fine della Guerra di Corea (conclusasi con un semplice armistizio invece di una pace). Pechino ha infatti sempre tenuto le difese della Corea del Nord nei consessi internazionali, oltre ad aver giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo del Paese grazie ad ingenti aiuti economici.

Ma, ultimamente, le cose sembrano essere cambiate nei difficili rapporti diplomatici con la DPRK, complici il cambio di leadership sia della Cina, con Xi Jinping, sia degli USA con Donald Trump.

Il nuovo Presidente cinese ha adottato infatti una linea aperta e tollerante con Washington e una più dura con Pyongyang. La sua volontà di rendere la Cina il nuovo colosso del commercio mondiale, complice anche la linea protezionista di Trump che ha portato all’affossamento del Ttp (Trans Pacific Partnership) che lascia campo libero in Asia, ha reso infatti necessario un “restyling” dell’immagine nazionale: la Cina quale Paese sostenitore di un libero mercato sostenibile e della pace attraverso la diplomazia.

Da questo punto di vista trovano spiegazione le ripetute condanne dei test nordcoreani da parte di Xi Jinping e il voto favorevole della Cina alle pesanti sanzioni economiche contro Pyongyang, proposte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad inizio agosto. L’impressione è che Pechino voglia porsi a capo di un dialogo per la pace, prendendo le parti della Nord Corea ma mostrandosi diplomatica soprattutto con gli Americani.

Ma dall’altra parte non c’è più Obama, che aveva tenuto una linea di “pazienza strategica” sulla situazione. Ora c’è Donald Trump, e la sua strategia fatta di duri attacchi a suon di tweet al veleno ed esercitazioni militari in Corea del Sud rendono ancora più difficili le trattative.

Due leader amanti delle parole forti si provocano l’un l’altro sapendo di trovare terreno fertile, per poi essere costretti a smorzare i toni dalla macchina diplomatica, non appena la tensione si fa troppo alta.

Parole che allarmarono non poco furono quelle pronunciate da Trump ad agosto, dopo la dichiarazione di Kim di volere attaccare la base americana di Guam, nel Pacifico. Il Presidente disse di voler dare alla Corea del nord “fire and fury”, “fuoco e fiamme”, usando un linguaggio molto poco istituzionale. La tensione è stata placata qualche ora dopo dal Segretario alla Difesa Mattis, rassicurando sulla volontà di cercare “soluzioni diplomatiche”. Forti moniti in merito sono stati più volte rivolti alla Cina, sia dallo stesso Trump che dal suo entourage. Il capo di Stato maggiore, il generale Joe Dunford, in visita a Pechino il 15 di agosto, avrebbe sollecitato la Cina ad esercitare maggiori pressioni su Kim Jong-Un affinché fermi le provocazioni.

La Cina è imbarazzata dalla condotta del leader nordcoreano: consapevole che tanto potere deriva da anni di aiuti e finanziamenti che lei stessa ha fornito, ora non può farsi vedere debole di fronte a Washington. Tutte le diplomazie dei Paesi coinvolti lavorano dunque per una soluzione pacifica, e per ora i provvedimenti più gravi sono le sanzioni economiche, ma l’opzione militare non è da escludere del tutto.

L’impressione è che Kim voglia arrivare al grado di potenza nucleare e nel frattempo provocare per tenere alta l’attenzione: solo allora si sentirà abbastanza sicuro per chiedere qualcosa al tavolo delle trattative. Un limite alla presenza militare Usa nella zona? Altri aiuti? Ciò che è certo è che Kim non fermerà il programma nucleare, unico fattore che garantisce la sua sopravvivenza.

UNA GUERRA CHE NON SCOPPIA: GLI INTERESSI IN BALLO

Infine cerchiamo di capire perché ai Paesi coinvolti non conviene un conflitto e quali sono gli interessi di ognuno in Nord-Corea.

USA: Trump ha fatto installare il THAAD (ne abbiamo parlato qua) e conduce esercitazioni congiunte con la Corea del Sud, tuttavia non ha interesse nell’iniziare una guerra nucleare: un attacco preventivo statunitense, infatti, vedrebbe sicuramente la discesa in campo di Cina e Russia al fianco di Pyongyang, e il conflitto andrebbe molto oltre i confini asiatici.

CINA: è forse quella che ha più interesse di tutti nel mantenere la sopravvivenza del regime. Uno Stato socialista e suo alleato al confine funge da zona cuscinetto che la protegge dall’eventualità di basi militari statunitensi “in casa”, per ora confinate in Corea del Sud.

GIAPPONE: questo Stato è una forte economia industrializzata. Un conflitto a soli 1200km, in cui si vedrebbe coinvolto, farebbe perdere molto anche in materia di investimenti.

COREA DEL SUD: costantemente minacciata dai riottosi vicini, sa però che una riunificazione delle due Coree andrebbe a suo sfavore. Il Nord ha un’economia disastrata, e le spese andrebbero tutte a gravare sulla ricca economia del Sud.

RUSSIA: una riunificazione ad opera USA danneggerebbe anche questo Paese, che vedrebbe i tentacoli a stelle e strisce allungarsi sull’Asia. Per questo Vladimir Putin, nel recente Forum Economico Orientale di Vladivostok (città vicina proprio alla Nord-Corea), avrebbe invocato non solo uno stop alle sanzioni (che danneggerebbero la Russia stessa), ma anche “un coinvolgimento graduale della Corea del Nord nella cooperazione nella regione”, proponendo “una strada comune che collega la Ferrovia Transiberiana alle ferrovie coreane”. Insomma, se Putin dovesse riuscire nel suo intento, espanderebbe la zona d’influenza Russa nella penisola coreana senza alcun impiego di forze.