Studente presso la facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, scrittore per il Prosperous Network. Fra fumetti, tecnologia e libri mi appassiono alla politica nostrana.

Una delle caratteristiche che ci contraddistingue come cittadini di quest’epoca è l’affossare o trascurare le persone quando sono vive per poi celebrarle una volta che sono passate a miglior vita. È l’istinto innato di creare miti ed icone che ci porta a santificare certi individui, dimenticando di quanto siano stati trascurati in vita oppure quanto questi abbiano vissuto – per loro o altrui demeriti – un’esistenza non proprio esaltante. Lo facciamo in tutti gli ambiti: la religione ha i suoi santi, la guerra i suoi militi più celebri, lo sport i suoi campioni leggendari, la musica i suoi mostri sacri intoccabili.
Ciò che di questi individui si ricorda è ciò per cui sono stati mitizzati: un santo per una sua opera di bene od un miracolo, uno sportivo per le sue immani fatiche che lo hanno portato a conquistare medaglie e così via, ma nessuno ricorda la loro vita, i loro errori, le loro cadute, le porte prese in faccia, gli attriti, le sconfitte, le cattiverie, le tenerezze… è normale, è per questo che si parla di simboli. Un simbolo è ricordato per la sua cifra distintiva, non per tutto il resto: deve richiamare la comunità ad un’esistenza corretta all’insegna di quel principio di cui si è fatto portatore.  Essere un simbolo però è allo stesso tempo un onore ed un rischio, un rischio che in questi giorni ha corso il compianto Giovanni Falcone.

Si tratta di una riflessione che sono stato portato a fare grazie alla lettura estremamente toccante di Storie di sangue, amici e fantasmi (Feltrinelli, 2017), l’ultima opera di Pietro Grasso, attuale presidente del Senato della Repubblica e per 43 anni magistrato antimafia. Egli è stato fra le altre cose giudice a latere del Maxiprocesso contro Cosa Nostra (1986 – 1992) ed ha avuto il compito di scrivere a tempo di record le 7000 pagine di sentenza. Nel libro Grasso, amico fraterno di Giovanni Falcone, scrive una lettera commovente indirizzata al defunto collega a 25 anni dalla strage di Capaci, dove solo per pura fortuna lo stesso Grasso non ci ha lasciato la pelle: doveva essere con lui, per fortuna però quel pomeriggio si trovava a casa con la famiglia.

Sono certo che lo sai cosa succede a Palermo ogni anno. Quell’aula bunker che tu avevi tenacemente voluto e che era stata costruita in sei mesi per farci celebrare il Maxiprocesso in Sicilia smette per un giorno i suoi panni di tribunale e diventa il luogo della commemorazione di tutte le vittime di mafia. Si riempie di studenti di ogni età. […] È un impegno strano, il nostro: contribuiamo a costruire il tuo mito e al contempo proviamo a demitizzare il simbolo che sei diventato.
Ci piacerebbe far capire a quegli studenti che sei stato un fuoriclasse nel tuo lavoro, un uomo che non temeva nessuna minaccia, ma anche una persona come tutti: siamo convinti, infatti, che non ti si debba cucire addosso l’abito dell’eroe, perché porterebbe a crederti un modello inarrivabile, ma quello del cittadino modello, come possiamo esserlo tutti. Solo così infatti il tuo esempio può continuare nell’impegno quotidiano di ciascuno di noi.

Giovanni Falcone di fianco all’amico e giovane collega Pietro Grasso

La strage di Capaci ha segnato la nostra storia e le nostre vite, da allora infatti si è presa conoscenza dell’orrore di una mafia stragista. Questo è sicuramente un merito del Falcone simbolo, l’aver combattuto quel mostro che l’ha inghiottito in un sol boccone… agli Italiani appariva chiaro infatti, e lo sarà da quel momento in avanti, che non si trattava dell’opera di pazzi, che non era stata solo l’autostrada A29 ad inghiottire i corpi di Falcone, di sua moglie, Francesca Morvillo, e degli uomini della scorta, e non sono stati nemmeno solo i 5 quintali di tritolo; quel 23 maggio del ‘92, a fagocitarli, è stato il più grande e grave cancro della nostra Penisola. Da allora il Bel Paese non sarebbe più stato percepito lo stesso dai suoi cittadini.

Per questo si ricorda Falcone come l’eroe, perché lo è stato, ma di Falcone occorrerebbe ripercorrere, per essere onesti, la sua vita per intero, il suo lavoro ed il suo rapporto con lo Stato. Quest’ultimo punto è ciò che ci interessa, perché è qualcosa che apre gli occhi. L’ispiratore è ancora Pietro Grasso, che ringrazio di cuore per le sue parole in sede di presentazione del suo libro. Il presidente ha parlato chiaro, lo immaginerete, è un personaggio sobrio e schivo che però non disdegna di dire ciò che c’è da dire al momento opportuno. Ha sottolineato senza mezzi termini l’ipocrisia di certi uomini di Stato, di certe personalità e di certi ambienti vicini a Falcone che gli hanno messo i bastoni fra le ruote fino al 1992, per poi cambiare casacca e cominciare a celebrarlo, a mitizzarlo. Falsi amici, falsa onestà.

Per dirne una, il Consiglio Superiore della Magistratura, organo di altissima caratura e prestigio, ha avuto più volte attriti con Giovanni Falcone, il quale era stato ritenuto inadeguato a ricoprire l’incarico di giudice istruttore di Palermo prima, e a prendere parte al Csm stesso poi; su di lui sono state dette parole pesanti e sono state date motivazioni incredibili (nel senso letterale del termine) riguardo al rifiuto della sua candidatura, come avrebbe sottolineato aspramente nei mesi successivi Paolo Borsellino. Se gli fosse stato concesso quel ruolo al Csm forse Falcone sarebbe potuto scampare dalla sua terribile sorte, ricorda Grasso.
Dopo la sua morte, dunque, si sono scordati i giochi di potere a suo danno, gli antichi dissidi e si è cominciato a celebrare il simbolo, quando invece ciò di cui si avrebbe più bisogno è proprio ricordare quanto accaduto in vita.

L’aula bunker di Palermo voluta da Falcone durante la stagione del Maxiprocesso


Se ne potrebbero dire ancora tante sull’ipocrisia del caso. Sono gli anni a ridosso della strage che più segnano il marcio dibattito politico attorno a Falcone, quando ad esempio il sindaco di Palermo Leoluca Orlando (che tra l’altro ricopre tutt’oggi tale carica) lo attaccava in merito ad alcune presunti documenti sensibili riguardanti Cosa Nostra “tenuti chiusi in un cassetto” da Falcone. La questione genererà diversi attriti, a cui egli risponderà ammonendo l’uso degli strumenti giudiziari per far battaglia politica. Secondo gli uomini del sindaco, che dichiarerà di non essersi mai pentito delle proprie accuse, Falcone sarebbe addirittura arrivato ad inscenare il fallito attentato dell’Addaura ai propri danni al fine di farsi pubblicità. Ad osservar bene però probabilmente tutto nasceva da una lotta fra correnti DC con cui Falcone aveva poco a che fare; Orlando era infatti oppositore della corrente andreottiana a cui era affiliato Salvo Lima, che il pentito Giuseppe Pellegriti accusava di coinvolgimento nell’omicidio di Piersanti Mattarella e Pio La Torre; Falcone, dopo aver interrogato personalmente il pentito ed aver appurato la questione, incolpò lo stesso Pellegriti di calunnia: si capisce bene come l’accaduto abbia potuto destare tutte queste ripercussioni politiche.

Le dichiarazioni di Falcone in risposta a tutto questa polemica sono celebri:

Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati.

La personalità di Falcone lo aveva sempre portato a metter le mani dove forse sarebbe stato meglio, per salvare la propria pelle, non metterle, ma lui era fatto così, si metteva in gioco, tuttavia dimostrava estrema lucidità rispetto a ciò a cui stava andando incontro, non era mosso dall’incoscienza, ma dalla consapevolezza. Chiamato a lavorare per il ministro di grazia e giustizia Martelli nel ‘91, entrerà nel gioco delle istituzioni statali più alte dove, a dispetto di ciò che si credeva, i giochi di malapolitica e la corruzione erano e sono assai presenti. La diatriba attorno a Falcone continuava: si era avvicinato ad un esponente politico socialista come Martelli e questo non andava bene a certi signori; puntava a creare, grazie al forte e sincero sostegno del ministro, nuovi strumenti che permettessero allo Stato di lottare la mafia, ma l’orrenda verità veniva a galla: pezzi di Stato non volevano affatto che essa fosse combattuta. Falcone sarà sempre più solo e sempre più indifeso di fronte alla realtà dei fatti. Sempre più vicino alla propria scomparsa.

Pietro Grasso lo sottolinea tristemente nella sua lettera:

Negli anni in cui ci siamo frequentati ho capito che delle tue tante qualità la più rara, la più difficile da prendere a esempio, è stata senza dubbio la tua capacità di resistere, di sopportare, di non fermarti di fronte agli attacchi – quanti ne hai ricevuti, Giovanni, e quanto subdoli – di non lasciarsi abbattere dalle sconfitte, ma andare avanti, sempre, con la barra dritta e la convinzione di farcela. Non erano gli attacchi mafiosi a farti male, quelli te li aspettavi: a ferirti erano le ingiurie dei politici sulle carte nei cassetti, le accuse dei giornalisti che credevano fossi diventato presenzialista, fossi salito sul carrozzone degli studi televisivi, e ancora di quelle dei colleghi magistrati, i voti contro di te giustificati con scuse ridicole per non nominarti prima a Palermo, poi alla procura nazionale e al Csm, che anzi in più di un’occasione ti convocò e ti costrinse a discolparti da oltraggi infamanti.
Con la luce triste negli occhi mi ripetevi: “alla fine, vedrai, la ragione prevarrà”.

Una segno di riconciliazione è arrivato a 25 anni dalla strage di Capaci, il 23 maggio scorso, quando il Csm ha desecretato tutti gli atti riguardanti Giovanni Falcone, rendendoli di pubblico dominio (800 pagine di atti sono consultabili via internet qui). Il gesto non è di poco conto, ha significato una simbolica presa di coscienza delle proprie azioni da parte del Consiglio; questo gesto di trasparenza ha fatto parlare qualcuno – giustamente – di ipocrisia, ma bisogna sempre ricordarsi che i magistrati del Csm di oggi non sono quelli di allora, non ce n’è davvero neanche uno, e se i magistrati di oggi manifestano l’intenzione di mettere a nudo la propria istituzione smascherando antichi altarini ciò è solo da apprezzare. Fra l’altro, come ricorda Grasso, molti dei magistrati hanno per l’occasione studiato le tantissime pagine desecretate che fino ad ora nemmeno loro avevano avuto la possibilità di analizzare nel dettaglio. L’intenzione di far luce però non deve essere rivolta solo al passato, ma anche al presente e al futuro, altrimenti la celebrazione resta solo quella che alcuni considerano una passerella, e avrebbero ragione di crederlo. Maria, la sorella di Giovanni, presenziando alle celebrazioni non si è riguardata dal dire, riferendosi al periodo degli attriti col Csm “E’ da allora che Giovanni ha cominciato a morire”.
Non sembri una novità, né un attacco, già Falcone lo diceva all’epoca. Dichiarava non senza preoccupazione: “Mi hanno consegnato ai boss della mafia”.

Concludendo, sono ancora delle parole di Grasso rivolte a Falcone, piene di commozione, quelle con cui vorrei chiudere questa riflessione. Sono parole, quelle della lettera – che invito a leggere per intero – che mischiano la storia al sentimento in maniera estremamente toccante ed armoniosa.

Da procuratore nazionale prima e da presidente del Senato ora, ho visitato numerosi paesi, e in molti ho trovato una traccia del rispetto con il quale sei ricordato. In un prato fuori Praga c’è un memoriale con il tuo nome. In un’aula di udienza per i processi contro la criminalità organizzata a Sarajevo ho scoperto una targa intestata a te. Nel giardino della scuola dell’Fbi a Quantico c’è il tuo busto sopra una colonna spezzata. Nel quartier generale di Washington un’intera scalinata è dedicata a te: alle pareti ci sono tue foto e articoli di giornali e in alto, cosa rarissima in America, la bandiera italiana intrecciata a quella a stelle e strisce.

La giornata del 23 maggio si chiude sempre sotto la magnolia che stava e sta sotto casa tua, in via Notarbarolo. Da quel giorno di 25 anni fa, infatti, è diventato un luogo sacro del nostro Paese: è lì che cittadini comuni, studenti, turisti appendono ogni giorno cappelli, magliette, sciarpe, disegni, lettere, messaggi che mi piace pensare tu possa leggere […]. Provo un enorme senso d’orgoglio ma, allo stesso tempo, mi viene l’istinto di girarmi e chiederti sorridendo: “Giovanni, che ci fai lì sopra? Apri il portone che salgo a prendere un caffè”. Quanto vorrei quel caffè non puoi immaginarlo.

di Stefano Ciapini