Studente romano di scienze politiche, appassionato di economia, serie TV, politica, soprattutto statunitense, e scrittura. La fusione delle ultime due ha portato alla collaborazione con il Prosperous Network.

Se c’è una cosa che non si può non riconoscere alla presidenza Trump è che essa abbia permesso a tutti di approfondire la propria conoscenza dei complessi meccanismi di checks and balances che sono alla base della democrazia americana. Qualche settimana fa, infatti, Neal Gorsuch è divenuto il primo candidato alla Corte Suprema a non aver superato il cloture voto atto a far finire il filibuster (anch’esso molto raro, come spiegato in questo nostro articolo). Ora, a soli quattro mesi dal giuramento, molti congressisti del Partito Democratico invocano già a gran voce l’impeachment nei confronti del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Nonostante vari esponenti dell’opposizione si siano già espressi, nelle scorse settimane, a favore di un impeachment, ieri il membro della Camera dei Rappresentanti Al Green ha espresso questo concetto durante una sessione del Congresso; si tratta di un gesto, ovviamente, molto più forte e dal significato più profondo ma che, per il momento, resterà poco più che un atto simbolico. Nonostante le molte controversie riguardanti il tycoon, infatti, i tempi sembrano assolutamente prematuri, e il GOP appare ancora estremamente restio a dissociarsi da Trump. L’unico repubblicano ad essersi espresso a favore di una messa in stato d’accusa è Justin Amash, rappresentante del III distretto del Michigan. C’è da dire, però, che i rapporti tra Amash e il Presidente sono ai minimi storici da molto tempo, specialmente da quando, il 31 marzo, Trump si è scagliato con violenza verso il Freedom Caucus (dall’ideologia molto libertaria), di cui Amash è il membro più rappresentativo dopo il senatore Rand Paul. La tensione, però, era alta già da molto prima, come testimonia questo tweet del 31 gennaio

Cos’è un impeachment?

David Stewart, avvocato e scrittore del Maryland,nel suo libro “Impeached” (dedicato al processo contro Andrew Johnson), descrive l’impeachment come una pratica che trova le sue origini in Inghilterra e che veniva utilizzata per processare grandi lord o alti ufficiali che si trovavano al di fuori della portata delle leggi della contea. La Costituzione americana prevede tre possibili categorie di atti che possono portare ad un’incriminazione, cioè tradimento, corruzione e altri grandi crimini e misfatti divisi in tre tipologie: a) violazione della legge; b)  abuso di potere; c) violazione della pubblica fiducia. È da sottolineare come queste definizioni siano state scritte addirittura da uno degli eroi della Rivoluzione, Alexander Hamilton.
La procedura è lunga e complessa e, a differenza di molte altre procedure, essa inizia nella Camera dei Rappresentanti e non in Senato. Il primo passo, infatti, deve essere compiuto dalla Commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti. Se si deciderà di procedere con l’impeachment, il Presidente della Commissione (al momento Bob Goodlatte, del VI distretto della Virginia) dovrà proporre una risoluzione che, se approvata, darà inizio ad un’inchiesta ufficiale. I risultati della suddetta inchiesta saranno la fonte principale che verrà usata per scrivere un’altra risoluzione, questa volta da inviare a tutta la Camera, divisa in vari articoli detti “Articoli di Impeachment”, ognuno dei quali contenente uno dei crimini che il POTUS avrebbe commesso.
Dopo aver preso visione della risoluzione, la Camera procederà alla votazione: per l’impeachment è necessaria l’approvazione, con maggioranza semplice, anche di uno solo degli articoli. In attesa del processo, il Presidente rimarrà normalmente al suo posto

Il Senato

A questo punto, la situazione passerà nelle mani del Senato, il quale riceve la risoluzione e formula regole e procedure (infatti, non ci sono standard da rispettare). Molto particolari, ad esempio, erano le regole stabilite (dai repubblicani, che avevano la maggioranza in Senato) per il processo a Bill Clinton: i rappresentanti dell’accusa avevano quattro giorni per presentare il caso e i rappresentanti legali del Presidente disponevano dello stesso ammontare di tempo per presentare la difesa. Per entrambe le parti, l’attività consisteva quasi esclusivamente nel fare le dichiarazioni di apertura: il Senato, infatti, aveva deciso di limitare fortemente il numero di testimoni e la durata delle deposizioni. Bob Barr, rappresentante della Georgia che fu il responsabile del processo, riassume perfettamente la situazione: “Impeachment is a creature unto itself,the jury in a criminal case doesn’t set the rules for a case and can’t decide what evidence they want to see and what they won’t”.

Il processo

Come era possibile evincere già dalla dichiarazione di Barr, i 100 senatori avranno anche il ruolo di giurati, mentre la Corte sarà presieduta dal Presidente della Corte Suprema, al momento John Roberts (un repubblicano abbastanza moderato). Alcuni senatori, inoltre, avranno anche il ruolo di prosecutor, cioè di Pubblici Ministeri. Il loro ruolo, dunque, è duplice, e fornisce loro un potere molto forte e difficilmente riscontrabile in qualsiasi altro tipo di processo.
Dopo aver ascoltato accusa e difesa, i senatori si riuniranno in sessione privata per cercare di ottenere un verdetto. Al termine della discussione, ci sarà una votazione (in sessione aperta) che richiede una supermaggioranza dei 2/3 del totale dei senatori per poter essere approvata. In caso di raggiungimento di questo quorum, il Presidente verrà rimosso dalla carica. Inoltre, con una maggioranza semplice, si potrà anche interdirlo a vita dai pubblici uffici.

I quattro precedenti

Nel corso della storia, due Presidenti hanno subito un impeachment e due hanno rischiato molto di subirne uno. Paradossalmente, però, l’unico ad aver dovuto lasciare la Presidenza non fu uno dei due effettivamente processati (Andrew Johnson e Bill Clinton), bensì Richard Nixon. Egli, però, soltanto tecnicamente può essere annoverato tra coloro che non subirono un processo: infatti, si dimise poco prima che la Camera votasse per l’impeachment. Inoltre, il risultato della votazione non era in dubbio, essendo lo scandalo Watergate un qualcosa di epocale e in grado di far terminare la carriera politica di chiunque.
L’altro Presidente contro il quale si iniziò una procedura, ma che non fu processato a causa del fallimento della votazione, fu John Tyler, decimo Presidente degli Stati Uniti. La sua colpa, secondo i membri del partito Whig (il suo stesso partito, tra l’altro) che lo accusarono, era quella di aver utilizzato il pocket veto su una legge riguardante le tariffe. Il pocket veto è uno degli aspetti da sempre più controversi del sistema politico americano: generalmente, se il Presidente non rimanda una proposta di legge alle Camere entro dieci giorni, essa diviene legge. Nel caso in cui, però, ci sia un aggiornamento del Senato, una proposta non rimandata indietro sancisce che essa non potrà mai divenire legge. Nel corso dei decenni, ci sono state moltissime questioni relative a questa pratica e una sentenza del 1929 l’ha di molto limitata, stabilendo l’aggiornamento della seconda sessione come unico momento nel quale sia possibile applicare il pocket veto. Negli ultimi anni, sia Clinton che Bush jr. hanno provato di nuovo ad avvalersi di questa facoltà, ma si tratta di un discorso che meriterebbe, come meno, un altro articolo. Quello che è importante sapere, in questo articolo, è che la proposta di impeachment contro Tyler (1843) fu respinta in modo abbastanza netto, 127-83.

25 anni dopo Tyler, anche Andrew Johnson fu sottoposto alla stessa procedura. Per capirne i motivi, è opportuno sottolineare come, nel periodo appena successivo alla Guerra Civile, molti repubblicani (partito anti-schiavitù) radicali volevano far terminare del tutto la schiavitù degli afro-americani. Personaggi illustri come Charles Sumner e Thaddeus Stevens, infatti, osservavano come gli Stati del Sud non avessero alcuna intenzione di instaurare un sistema di eguaglianza tra bianchi e neri, come dimostrato anche dal Black Code emanato in Mississippi nel 1865. Questo codice, infatti, vietava ai neri di testimoniare in tribunale contro i bianchi e di servire come giurati; inoltre, dovevano frequentare scuole separate.
Sfruttando, tra le altre cose, la terribile campagna elettorale di Johnson, nel 1866 due terzi del congresso era composto da radicali, dunque ostili al Presidente. Johnson, arrabbiato per aver subito il veto su ben tre atti dal nuovo Congresso, peggiorò la situazione cercando di rimuovere il suo Segretario della Guerra, Edwin Stanton, fervente radicale, per sostituirlo prima con Ulysses S. Grant (che rifiutò perché, come vedremo a breve, la sua nomina era illegale) e poi con Lorenzo Thomas. In questo secondo caso, la situazione raggiunse picchi di drama notevoli, visto che Stanton si barricò nel proprio ufficio. Come detto poco fa, l’azione del Presidente era illegale, in quanto violava il Tenure of Office Act, il quale vietava la rimozione di un Segretario la cui nomina era stata approvata dal Senato. Per questo motivo, con una schiacciante maggioranza di 126-47, la Camera dei Rappresentanti votò a favore dell’impeachment di Johnson.
Il processo sembrava avere un esito scontato, ma qualcosa di inaspettato successe durante la votazione per quanto riguardava l’undicesimo articolo, quello riguardante la condotta generale di Johnson nei confronti del processo. 35 senatori su 54, infatti, erano sicuri di votare a favore. Per ottenere la supermaggioranza, però, mancava il voto di un altro senatore, che sarebbe dovuto essere il giovane repubblicano radicale Edmund Ross. Nonostante le ovvie pressioni da parte del proprio partito, Ross, al momento del voto, disse “Not guilty”. Andrew Johnson era salvo per un singolo voto su un singolo articolo.
Se si è deciso di approfondire abbastanza la questione di Johnson è perché essa risulta molto più sconosciuta al grande pubblico rispetto a quella di Nixon e Clinton. Per quanto riguarda Nixon, i suoi problemi iniziarono quando Frank Willis, una guardia di sicurezza del palazzo Watergate ( una delle sedi del DNC), trovò del nastro adesivo su una porta. Dopo averlo rimosso, notò poco dopo come esso fosse tornato al suo posto. Decise di chiamare la polizia, che arrivò, trovo cinque uomini non autorizzati a trovarsi lì e li arrestarono. Uno di questi cinque era James McCord, presidente del Comitato per la rielezione di Nixon, il quale aveva, per di più, il numero di Howard Hunt, un ex funzionario della Casa Bianca, sul blocco note. Iniziarono così i primi sospetti, ma la vicenda veniva ritenuta non così rilevante. Il lavoro di due giovani giornalisti, Bob Woodward e Carl Bernstein, però, contribuì a tenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vicenda. La situazione vide Nixon tra i sospettati dopo le testimonianze che ex impiegati come John Dean riferirono alla Commissione del Senato. L’escalation è poi nota, con il rifiuto di Nixon di consegnare i nastri delle registrazioni incriminate, i 18 minuti accidentalmente cancellati dalla segretaria del POTUS, Rose Mary Woods, e la sentenza della Corte Suprema che obbligava Nixon a consegnare i detti nastri. Queste registrazioni mostravano come quello del palazzo Watergate non fosse un caso isolato, visto che il Comitato per la rielezione, sotto la guida di Hunt e Liddy (anch’essi ex funzionari della White House), portarono avanti negli anni numerose azioni illegali nei confronti dei membri del DNC e degli oppositori alla guerra in VIetnam. Il 1° marzo 1974, sette aiutanti di Nixon furono arrestati per aver ostacolato le indagini. Il 5 aprile uno dei segretari personali di Nixon fu accusato di falsa testimonianza di fronte al Gran Giurì. Due giorni dopo, anche il Governatore della California, Ed Reinecke, fu accusato di spergiuro di fronte alla Commissione del Senato.
Di fronte a questa situazione, la Commissione Giudiziaria iniziò a discutere di un possibile impeachment, e la votazione del 27 luglio ebbe un risultato schiacciante, 27 favorevoli e 11 contrari. Due giorni dopo, la Commissione aggiunse all’accusa di ostacolo alle indagini anche abuso di potere e ostacolo al Congresso. In agosto fu scoperta una cassetta del 1972 nella quale Nixon e Haldeman (capo dello staff) parlavano di scavalcare l’FBI tramite un falso comunicato della CIA. Ciò rappresentò la fine definitiva delle speranze di Nixon, che si dimise il 9 agosto, poco prima che la Camera dei Rappresentanti votasse a favore dell’impeachment.

La storia di Bill Clinton è, forse, ancora più nota di quella di Nixon, essendo anche molto recente (neanche venti anni fa). Tutto iniziò quando, nel 1994, Paula Jones, ex dipendente, denunciò Clinton per molestie. Durante le indagini, furono scoperte alcune registrazioni nelle quali Monica Lewinsky, un’ex dipendente della Casa Bianca, parlava di aver avuto rapporti sessuali con il Presidente. Davanti al Gran Giurì, nel gennaio 1998, Clinton negò categoricamente tutto ciò, ma fu smentito dal report Starr (il nome del Pubblico Ministero). Nonostante ciò, si iniziò a parlare di impeachment soltanto mesi dopo, in seguito alle midterm di novembre, nelle quali i Democratici avevano a sorpresa guadagnato seggi, riducendo la maggioranza repubblicana. La Commissione giustizia accusò Clinton di spergiuro sia nel caso Jones che nelle indagini di Starr, di ostruzione alla giustizia nel caso Jones  e di falsa testimonianza. Soltanto due di questi quattro articoli, il primo e il terzo, furono approvati dalla Camera.
I dettagli del processo sono stati in parte già descritti in precedenza; va aggiunto soltanto il voto bipartisan (70-30) nel negare l’audizione a Monica Lewinsky e il rispetto delle linee di partito nelle votazioni sui due articoli: il primo ottenne 55 voti favorevoli e 45 contrari, il secondo 50 favorevoli e 50 contrari. In entrambi i casi, numeri assolutamente non sufficienti, visto che erano richiesti 67 voti.

Di cosa è accusato Trump?

Sin da prima della sua vittoria, a Novembre, Donald Trump è stato a vari livelli accusato di avere legami più che sospetti con Vladimir Putin e altri funzionari russi. Tutto ciò ha portato l’FBI ad aprire un’indagine, richiesta sia da membri del DNC che da alcuni del GOP. La situazione, già di per sé abbastanza tesa, è precipitata quando il POTUS, l’undici maggio, ha licenziato il direttore del Bureau, James Comey, provocando uno sdegno più o meno bipartisan (in ogni caso, il GOP si limita al massimo a condannare verbalmente, per il momento). Sia chiaro, Comey non era di certo il funzionario più rispettato dai Dem (che, anzi, lo hanno accusato di aver rotto la tradizione di non partigianeria durante la campagna elettorale, vedi email della Clinton), ma loro non hanno certo esultato per il suo licenziamento. Sin da subito, infatti, c’era la sensazione che ciò potesse essere collegato all’indagine che egli stava portando avanti. Queste voci  paiono essere confermati da Comey stesso, che in un memo parla di come Trump gli abbia chiesto di chiudere le indagini.
Come era prevedibile, la reazione di Trump non si è fatta attendere. In un tweet, infatti, il Presidente dice che Comey farebbe meglio a sperare che non ci siano registrazioni delle loro conversazioni.
Sia chiaro, licenziare il direttore dell’FBI non è illegale dal 1968 (cioè da quando viene nominato dal Presidente) ed è già successo una volta in passato, quando Bill Clinton licenziò il direttore Sessions. La differenza, però, è che Session aveva effettivamente comportamenti poco appropriati per il suo ruolo e, soprattutto, non stava svolgendo indagini relative a Clinton stesso.

Un altro grande problema, sempre relativo alla Russia, è quello della condivisione di informazioni altamente riservate con il ministro degli esteri Lavrov e con l’ambasciatore Kislyak. Anche in questo caso, Trump ha risposto tramite Twitter, ribadendo il suo diritto a condividere informazioni relative alla lotta contro l’ISIS per ragioni umanitarie. Non si sa ancora di che tipo di informazioni si stia parlando e McMaster e Tillerson parlano di una conversazione assolutamente normale. Una fonte del Washington Post, però, parla di compromissione di una risorsa preziosissima nella lotta al Califfato.

In entrambi i casi, la situazione è ancora nebulosa e poco chiara; per questo, bisognerà attendere le indagini prima di esprimere giudizi definitivi e, per lo stesso motivo, l’impeachment non sembra essere imminente.

Chi sarebbe il nuovo Presidente?

Sebbene nessun Presidente si sia dovuto dimettere dopo un impeachment, pare ovvio che, in caso di condanna di Trump, Mike Pence dovrebbe diventare il 46° Presidente USA. L’unica situazione che potrebbe cambiare scenario sarebbe quella di un impeachment anche nei confronti di Pence, che potrebbe essere stato complice di Trump, o potrebbe aver saputo e non denunciato. Obiettivamente, si tratta di una prospettiva abbastanza irrealistica. Comunque, in caso succedesse, il Presidente sarebbe Paul Ryan, attuale Speaker della Camera.
Pence è molto più conservatore di Trump su molti temi (del resto, all’inizio The Donald veniva considerato un repubblicano moderato), ma è anche una figura più istituzionale dell’attuale Presidente e meno tendente ad alcune uscite poco diplomatiche. Per questo, potrebbe essere una figura più benvoluta dal GOP in un prossimo futuro, soprattutto in caso di risultati negativi alle elezioni di metà mandato.