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Un’economia a misura d’uomo

Quante volte si è sentito dire “i soldi non fanno la felicità”? Beh, andatelo a dire a dei poveri disgraziati a cui servirebbero per poter mangiare. In generale, pensando a quest’assunto, non potremmo che ritenerlo del tutto atipico in un discorso economico.

In realtà però esiste una branca dell’economia che rivaluta questo pensiero quando necessario. L’ ”economia del benessere”, o “della felicità”, per non confonderla col benessere solitamente inteso, è una disciplina relativamente nuova dell’economia sociale che studia entro quali limiti sia necessario l’incremento del patrimonio e quanto invece questo sia, nel sistema vigente di tutto il mondo “occidentale”, ininfluente nella creazione di vera felicità sociale.

Si è andati innanzitutto a studiare il concetto di benessere per legarlo a dati empirici accettabili, così da poterlo rendere una discriminante economica. È stata poi individuata una commistione fra capillari rilevazioni statistiche concernenti la felicità  percepita dalla popolazione di vari paesi e l’incidenza di malattie mentali, suicidi, stress… tutti i mali che caratterizzano la società contemporanea più sviluppata.

Osservando il ventennio 1980-2000 è possibile constatare chiaramente che, ad un aumento massiccio e reale dei redditi e del PIL, non è aumentato, anzi talvolta è sceso, il benessere delle popolazioni. Questo in particolar modo negli Stati Uniti, dove si registra un sensibile calo, oltre che in paesi con uno sviluppo galoppante come la Cina, mentre nei paesi Europei la felicità percepita si è mantenuta più o meno costante, a parità di fattori economici in crescita fino agli anni 2000, dunque dati poco esaltanti anche nelle nostre zone, con la maglia nera della Gran Bretagna che registra dati più affini all’America per questioni che poi si diranno.

La ragione (e poi la soluzione) date da questo tipo di studio economico risiedono nello stile di vita e nelle scelte politiche effettuate negli ultimi anni da tutti gli stati sviluppati, ovvero quelle di puntare forte sul consumo. Si è instaurato un circolo vizioso che vede la crescita esponenziale del desiderio di beni materiali dei consumatori soddisfatto dai produttori che, per aumentare ancor di più il desiderio, hanno utilizzato largamente lo strumento della pubblicità, che tutt’oggi ci martella le teste. La politica non ha certo frenato questo, anzi, l’utilizzo esclusivo di indici di consumo come cartina tornasole per il benestare dei cittadini ha contribuito proprio a veicolare questo scenario. Il consumo sempre crescente ha portato le persone a non averne mai abbastanza generando due piaghe, ovvero il declino dei beni relazionali in favore dei beni di consumo e il meccanismo dei “paragoni sociali”.

Cioè, si è perso il rapporto con l’altro dovendo star dietro ad una vita freneticamente aggrappata al consumo, e si è anche persa la capacità di accontentarsi di quel che si ha, paragonando sempre i propri averi a quegli degli altri. L’esempio semplice che spesso viene fatto per spiegare i paragoni sociali è quello di un gruppo di persone dotate di bellissime macchine, che non riescono a guardare al proprio veicolo senza invidiare quello altrui: il tizio col fuoristrada sbaverà per l’auto sportiva, che a sua volta desidererà ardentemente la 7 posti e così via. Come si diceva, la pubblicità che ci segue in ogni dove è volta a far consumare sempre di più, in una logica di conquista del compratore, una battaglia senza fine fra produttori che non sembra arrestarsi. Se già questo scenario risultasse abbastanza sconcertante, si aspetti di osservare nel dettaglio la questione statunitense, visto che si è detto che in Europa, tutto sommato, il benessere si è mantenuto costante: un dato fiacco, ma migliore rispetto al declino inesorabile del benestare percepito dai cittadini USA.

Oltreoceano i fenomeni sopra citati sono stati marcatamente più significativi, la pubblicità infatti prende parte della vita degli Americani molto più che della nostra, e il criterio di ricerca di un bene materiale sempre nuovo e sempre migliore, porta certi individui a fare pazzie compiendo gesti immaturi e fuori luogo, come la corsa ai mutui che via via si sovrappongono per poter permettersi residenze sempre più grandi. Un discorso simile in quanto a sviluppo del mercato pubblicitario può essere fatto, come anticipato in precedenza, per la Gran Bretagna, simile agli USA in questo frangente. I beni relazionali, la leva che servirebbe a ritirare su la situazione, decrescono progressivamente all’aumentare dell’invidia e del paragone sociale, che a loro volta generano consumo sempre più sfrenato.

L’industria della pubblicità, inoltre, in particolar modo in America, trova nei bambini la sua “vittima” principale, sono i pargoli, infatti, che abituandosi ad una vita costellata di consumo, costituiranno il fronte degli acquirenti del domani. Prospettiva allucinante: avere un amico costerebbe poco e niente, avere tutto ciò che il desiderio consumistico smuove porta le famiglie anche ad indebitarsi e ad essere infelici e soggette a malattie.

I soldi e il lavoro fanno la felicità? Sì, indubbiamente, ma fino ad un certo punto. Arrivati in una situazione in cui è possibile avere tutto ciò che è veramente necessario, i soldi e l’aumento effettivo delle ore di lavoro svolto non portano né maggior soddisfazione né maggior felicità, che poi è ciò che un uomo dovrebbe cercare nella propria vita. 

Siamo circondati invece dalla ricerca spasmodica di qualcosa che non c’è. Non si vuole certo demonizzare in toto il bambino che vuole il giocattolo o l’adulto che desidera un bel paio di scarpe, ma il circolo vizioso in cui si è insiti non permette di rimanere fuori da un appetito che molto spesso ci fa immotivatamente rodere il fegato.

La politica può certamente porre rimedio a questa logica malata, innanzitutto prendendo le stime di consumo per quel che sono e non come uniche misure possibili, affiancandole ai ritrovati dell’economia del benessere, che vede come panacea di molti mali la riscoperta dello spazio pubblico, di luoghi dove le persone possano incontrarsi e instaurare un dialogo, cosa che serve come il pane.

Riforme strutturali della città, a partire dai luoghi come i parchi, dove la gente si ritrovi, che affianchino il centro commerciale, dato che quest’ultimo è l’unico posto dove la massa tende ad incontrarsi. Una buona cosa sarebbe anche investire massicciamente sui trasporti pubblici, che in fin dei conti sono dei punti di ritrovo e di vita comune a tutti gli effetti, senza considerare inoltre che renderebbero la città stessa più vivibile, meno intasata, meno inquinata, altra prerogativa fondamentale per il benessere. Opere del genere si possono riscontrare per nostra fortuna anche in città italiane, anche se si tratta di passi in avanti sporadici e talvolta non eclatanti. Firenze, ad esempio, uno dei fiori all’occhiello della bellezza nostrana, sovente imbottigliata nel traffico, si sta dotando in questi anni di una rete tramviaria che, nonostante le grane dei cantieri che per forza vanno sopportati, ha già creato benefici, e ne creerà molti negli anni a venire, quando l’opera sarà completa. Avere una città a misura d’uomo è un bel merito e forse più di tutti l’hanno capito i paesi nordici, che puntano fortemente su questo aspetto, non a caso la qualità di vita dei cittadini scandinavi è reputata come molto alta: là si pensa maggiormente all’ambiente, alla vita buona, alla socialità.

Si parla poi di modifiche a favore della vita felice che non possono che investire la scuola, il lavoro, gli ospedali, i media, il sistema democratico tutto: l’economia della felicità si lega strettamente alla politica come unica forza locomotrice della trasformazione necessaria, tanto per cambiare.

Lo sviluppo economico va abbandonato? No, sarebbe un’ingenuità, ma va supportato da politiche che rendano lo sviluppo stesso socialmente accettabile. È chiaro che per uno Stato risulti molto importante sviluppare la propria economia, e non si può negare che il PIL risulti essere un indice cruciale in molti frangenti (su questo si aprirebbero tanti discorsi), ma ciò comporta anche molti oneri che gravano sulla comunità intera, perciò sono necessarie misure parallele che guardino all’essere umano e al suo vero benessere, altrimenti lo sviluppo diventa un non-sviluppo.

Il primo sforzo, comunque, può venire proprio da noi stessi, anzitutto approfondendo il discorso. Una lettura consigliata è “Manifesto per la felicità” di Stefano Bartolini, docente di economia politica e sociale presso l’università di Pisa, oltre che ispiratore di questo scritto, che affronta tali tematiche con la puntualità e la certezza dei dati di cui, per ovvie questioni, questo articolo è lacunoso.

Certo, non si può che chiudere tutto con un celeberrimo discorso, rimasto nell’immaginario collettivo, che sembra riassumere un po’ di quel che è stato detto fin’ora, cercando di trarne lo spirito critico e costruttivo e non cadere in un’opinione negativa tout court dell’economia occidentale.

«Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro Pil ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel PIL – se giudichiamo gli USA in base ad esso – comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, ed i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini.Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».

Robert Kennedy, 18 marzo 1968.

Articolo di Stefano Ciapini